Traggo spunto dall’ultimo editoriale di Lazzati (Mark up, 270), per la parte dove si stigmatizza il ruolo subalterno del commercio dentro la socio-cultura main stream (“Rassegnatevi cari, commercianti, il premio come azienda dell’anno lo prenderà sempre
qualcun altro”). La questione è seria ed anche grave. Il commercio conta politicamente meno di quanto dovrebbe perché il nostro Paese è afflitto da un pregiudizio troppo favorevole alle esportazioni a detrimento del valore della domanda interna che senza commercio, è solo un fantasma. Ne è prova l’ossessiva invocazione all’aumento delle imposte sui consumi: per riequilibrare i conti, per finanziare l’Europa (Iva comunitaria), per coprire la flat tax o il reddito di cittadinanza o qualsiasi altra misura contro la povertà, per rendere più competitivo il sistema nel complesso (con la svalutazione fiscale, aumentando le imposte sulle importazioni che pagano l’Iva e non sulle esportazioni, che pagano nel Paese di destinazione).
Ultimamente si sono sentite anche congetture del tipo “se aumenta l’Iva il Pil nominale cresce e quindi il rapporto Debito/Pil scende e aggiustiamo i conti” (ma allora i commercianti dovrebbero raddoppiare i prezzi per amor di patria!). Ho addirittura letto che la minaccia di un corposo aumento dell’Iva indurrebbe i consumatori ad anticipare la spesa per paura di prezzi più elevati in futuro, incrementando repentinamente gli acquisti e fornendo, così, nuovo impulso all’attività economica. Non commento. Credo, invece, sia ora di superare le divisioni tra agricoltura, industria e commercio, per fare nascere una nuova cultura della domanda interna, senza cui siamo destinati al declino.
Troppo favore verso l’export. E la domanda interna?
Gli opinionisti di Mark Up (da Mark Up n. 271)