Tra le grandi sfide che il settore agroalimentare deve affrontare c’è la lotta allo spreco alimentare. Secondo i dati Fao ogni anno circa un terzo del cibo prodotto viene gettato lungo l’intera filiera, causando danni economici, ambientali e sociali per 2.600 miliardi di dollari. Gli sprechi generano da soli l’8% delle emissioni di gas serra mondiali e, a livello sociale, evidenzia la Fondazione Barilla, il cibo gettato ogni anno basterebbe a sfamare 4 volte gli 821 milioni di persone che soffrono ancora la fame. Dati i numeri allarmanti, la “riduzione delle perdite e il dimezzamento degli sprechi alimentari” sono stati inseriti nel target 12.3 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’Onu. Le imprese alimentari, così come i distributori di cibo, e gli stessi consumatori, sono sempre più consapevoli e sono già in atto diverse iniziative pubblico-private per ridurre e redistribuire gli sprechi. Come quelle di food sharing, ossia attività volte alla redistribuzione di cibo in eccesso, da parte di imprese o singoli individui.
Fino a qualche anno fa queste attività erano svolte quasi esclusivamente dai cosiddetti banchi alimentari, organizzazioni non profit tuttora molto attive che recuperano il cibo commestibile ma in scadenza e lo donano agli enti caritativi che lo distribuiscono ai bisognosi. Con l’esplosione delle nuove tecnologie si stanno sviluppando le piattaforme digitali di food sharing, two- side o multi-sided, ossia rivolte a due o più mercati, tipicamente i fornitori (agricoltori, produttori e distributori) e i beneficiari (singoli individui od organizzazioni non profit), ma anche a soggetti terzi come le amministrazioni locali (per esempio, i Comuni) o gli enti non profit, quali intermediari per agevolare i processi di scambio. Sebbene abbiano l’obiettivo comune di riduzione degli sprechi alimentari, nelle nostre ricerche (Michelini, L., Principato, L., & Iasevoli, G. -2018- Understanding food sharing models to tackle sustainability challenges. Ecological Economics) le piattaforme di food sharing appaiono caratterizzate da modelli di business differenti. Un modello è il p2p (peer- to-peer): il consumatore pubblica sulla piattaforma gli alimenti che non può consumare e altri individui possono selezionare l’offerta e concordare le modalità di ritiro. Esempi sono Foodsharing in Germania e Olio in Inghilterra.
Un’altra modalità di redistribuzione è il b2npo (business-to-non profit organization), in questo caso i fornitori sono imprese (agricoltori, distributori) che caricano sulla piattaforma i prodotti offerti gratuitamente alle organizzazioni non profit. In Italia BringtheFood punta sulla propria rete territoriale, grazie ad accordi con i consorzi di produttori locali. Un modello in forte espansione è il b2c (business-to-consumer) in cui i fornitori caricano le offerte di cibo e il consumatore finale può recarsi nel punto di vendita e acquistare a un prezzo molto vantaggioso. Come Too Good To Go, startup danese da poco attiva anche in Italia in cui i fornitori sono prevalentemente pubblici esercizi (ristoranti, pizzerie, panifici). Myfoody, invece, attiva esclusivamente in ambito gdo, è una startup italiana che ha ideato delle “aree anti-spreco MyFoody” nei supermercati partner con la possibilità per gli utenti di visionare in tempo reale sulla app le offerte geolocalizzate, beneficiando di uno sconto del 50%. Un modello misto è proposto da Regusto, startup italiana che opera sia nel b2c che b2npo. L’app Regusto offre al consumatore proposte alimentari take away del settore horeca a un prezzo scontato e introduce il concetto innovativo di “pricing dinamico”. In ambito b2npo propone una formula nella quale l’amministrazione pubblica locale gestisce i rapporti tra fornitori (gdo, distributori, industria) e gli enti non profit favorendo la donazione/recupero delle eccedenze e semplificando i processi burocratici per godere dei benefici fiscali delle donazioni e delle detrazioni sulla tassa sui rifiuti. Le piattaforme però sono ancora poco diffuse. La sfida è renderle protagoniste nella lotta agli sprechi. Alla base vi è la necessità di sensibilizzare i consumatori e gli operatori, un ruolo importante è svolto da istituzioni, università e media. Segue la formazione, per superare barriere spesso di natura culturale attraverso l’educazione degli operatori a un uso quotidiano della tecnologia. Un’altra sfida è connessa al cosiddetto network effect, ossia l’effetto positivo generato dalla grandezza della rete. Nel caso del food sharing, più fornitori ci sono (quindi più offerte e ben diversificate), più gli utenti traggono vantaggio dall’uso della piattaforma e, d’altra parte, più beneficiari ci sono e più i fornitori avranno interesse a caricare le offerte. In questo scenario si colloca l’altra sfida, ovvero individuare un modello di revenue adeguato per catturare valore dal mercato (lato fornitori o lato utenti) e garantire la sostenibilità economica nel tempo. L’ultima sfida riguarda la necessità di migliorare la misurazione dell’impatto e utilizzare i dati per stimare domanda e offerta di cibo, al fine di passare da un approccio basato sulla redistribuzione a uno finalizzato alla prevenzione degli sprechi. Qui si apre un potenziale paradosso: agire sulla prevenzione degli sprechi potrebbe portare a un ridimensionamento dei volumi intermediati dalle piattaforme (o addirittura a una loro estinzione in caso di “spreco zero”) il che porterà nel prossimo futuro a innovare nuovamente il modello di business. Ci auguriamo di vedere presto quali nuove sfide porterà con sé.