Dopo quello metalmeccanico il settore agroalimentare resta il più rilevante per l’export del made in Italy. Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare sposta però in avanti di un anno il raggiungimento del traguardo dei 50 miliardi di esportazioni fissato per il 2020 a causa di uno scenario internazionale che, tra Brexit, dazi statunitensi e l’adozione in alcuni paesi europei delle etichette a semaforo, potrebbe comportare, nel breve-medio termine, una contrazione della domanda.
“Rispetto a quest’ultimo tema -afferma- tutto il mondo delle organizzazioni professionali industriali e agricole italiane sta combattendo per non far passare l’adozione a livello comunitario del Nutri-Score, che si fonda sulla valutazione di un singolo prodotto e non della porzione all’interno della dieta. La decisione del governo nazionale di introdurre la tassa sulle bevande zuccherate avalla la logica dei sostenitori dei semafori, invece che puntare il dito su diete scorrette, e rende complicato poi andare a sostenere in sede europea il principio contrario. Per il made in Italy agroalimentare sono più temibili le conseguenze dei semafori che la Brexit o i dazi di Trump, oltre al fatto che dove sono stati applicati non hanno ridotto il tasso di obesità”.
Come giudica l’eventuale introduzione, al vaglio del governo, di una tassa sugli imballaggi in plastica?
È una manovra che mette in difficoltà il mondo imprenditoriale dal momento che non esiste un prodotto sostitutivo. In questa fase, bisognerebbe lavorare maggiormente sull’educazione al riciclo. Se l’esigenza del governo è quella di fare cassa sarebbe più semplice dichiararlo, almeno avrebbe una sua logica, discutibile ma comprensibile; sono comunque atteggiamenti che stanno affaticando e demotivando il settore produttivo che rappresento.
Federalimentare ha stimato una contrazione del 15% dell’export italiano negli Usa a seguito dei dazi al 25% imposti da Trump, cosa dove fare la politica europea a questo punto per limitare il danno?
Se Trump non aumenterà ulteriormente i dazi verso l’Europa, sono convinto che, dopo l’impatto iniziale, l’agroalimentare italiano recupererà velocemente la propria quota di mercato: per la fascia di consumatori che acquista il nostro cibo l’entità degli aumenti non comporta la rinuncia né ai prodotti né allo status symbol che rappresentano.
La politica europea deve negoziare con gli Usa, senza tirare troppo la corda. Come Italia da uno scontro commerciale abbiamo solo da perdere perché siamo un Paese piccolo e di trasformatori, perciò dipendiamo molto dall’importazione di materie prime che, per alcune filiere, supera il 50%.
Se non si trova un accordo i dazi saranno inevitabili, ma Francia e Germania, i più colpiti dalla reazione americana, si stanno dando un gran da fare.
Il Ceta va ratificato?
Certo. Se chi, per ragioni ideologiche, ha interesse a evidenziarne solo gli aspetti negativi trascurando quelli positivi sbaglia. E i dati lo confermano. In generale, rispetto agli accordi bilaterali, l’industria alimentare italiana non deve temere i prodotti a basso costo perché, senza eccedere nell’ottimismo, abbiamo costruito un brand, come la Ferrari nelle automobili, con cui ci posizioniamo in nicchie di mercato di fascia alta. Tante nicchie che hanno portato l’export alimentare italiano a crescere dell’83% in 10 anni, mentre i consumi interni sono calati del 10%. Produciamo delle eccellenze. E non a caso ci copiano.
E la Russia?
Se si riaprisse il mercato russo sarebbe una boccata di ossigeno per il food&beverage italiano in una situazione internazionale puntellata di tanti focolai di instabilità politica.
Quali gli accordi bilaterali prioritari?
Quelli con tutti i paesi emergenti. Sono mercati dove si sta formando il ceto medio e dove il nostro alimentare cresce a due cifre.
Il rapporto con la gdo?
Abbiamo riaperto il dialogo con Federdistribuzione nel comune interesse di riportare il consumatore a spendere di più poiché la politica del basso prezzo non è sostenibile da nessuno e per forza di cose finisce per andare a discapito della qualità. Il mercato interno è in sofferenza perché è calata la capacità di spesa delle famiglie, ma anche per il susseguirsi di campagne denigratorie verso alcuni comparti. La diffusione di fake news, anche attraverso i mezzi di informazione, ha allontanato i consumatori italiani, mentre all’estero l’affidabilità della nostra industria alimentare non è messa in discussione.
Si pensi a un alimento economico come la pasta che in 10 anni ha perso altrettanti punti di quota di mercato perché si è detto che si utilizzava grano d’importazione di scarsa qualità. O al pomodoro. Nel calo dei consumi va poi aggiunto anche un elemento positivo, cioè che si spreca meno cibo.
Federalimentare è al centro della filiera e deve prendere in mano la questione dialogando ed essendo propositiva. Come Federazione abbiamo scritto al presidente della Rai per chiedere un tavolo con i capi delle testate giornalistiche.