Partiamo dai numeri: nel marzo 2015 l’Istat forniva la prima stima sul Pil dell’anno 2014: -0,4%. Un anno dopo la valutazione era -0,3%. Trascorsi altri sei mesi si scoprì, sempre da fonte ufficiale, che il 2014 aveva mostrato una modesta crescita (+0,1), convinzione che abbiamo mantenuto fino a settembre 2019 quando il “dato” è tornato negativo (ma nelle statistiche è uguale a zero, causa arrotondamento). È un esempio sulla variazione annuale; di peggio accade per i singoli trimestri. Morale: se le variazioni sono piccole è inutile accanirsi sul loro significato profondo (non ne hanno). L’economia italiana è in stagnazione dalla fine del 2017 e per il 2020 dovremo attenderci fibrillazioni su un trend invisibile piuttosto che una ripresa: tra +0,2% e +0,6% tanto per il Pil quanto per i consumi. Micro-valori che impongono, appunto, massima cautela nella loro interpretazione. La transizione tra crisi e ripresa, in Italia, sembra muoversi in uno spazio dilatato e la crescita appare irraggiungibile. Del tutto fuori luogo sarebbe attribuire il fenomeno a cause esterne o alle regole che ci siamo dati per vivere dentro la comunità internazionale. È sul versante interno che non riusciamo a curare i nostri mali strutturali. Un complesso di problemi frena infatti la modernizzazione del Paese e ne disperde le migliori energie. Il problema più grave è ormai la riduzione delle aspettative delle nuove generazioni, che tendono a emigrare all’estero, se possono e appena possono. La perdita di capitale umano che l’Italia patisce oggi, peserà anche domani. E nel futuro prossimo non si aspettano cambiamenti rilevanti.
Quindi, come detto, il 2020 sarà ancora molto difficile. Il completo disinnesco degli aumenti dell’Iva dovrebbe, comunque, evitarci l’ennesima recessione. Merito del Governo che con determinazione ha concentrato le poche risorse disponibili e i margini di flessibilità su questo obiettivo fondamentale. Sul florilegio di norme, vincoli, obblighi e micro-tasse che gli fanno da pessimo contorno e che creeranno ulteriori impacci ai produttori di reddito, invece, sorvolo. Ci sono però focolai di incertezza che ardono sul fronte internazionale. Passivamente, ne subiremo le conseguenze e, nelle ipotesi peggiori, potrebbero comprimere la ripresa anche di 4 o 5 decimi di punto, bloccando il Sistema Italia sul crinale stagnazione-recessione cui siamo abituati. Le recenti operazioni militari turche danno nuovo slancio alle ambizioni egemoniche dell’Iran, in un crocevia di importanza strategica per gli approvvigionamenti energetici delle economie occidentali. Le recrudescenze protezionistiche frenano i piani di investimento delle imprese. Se questo clima dovesse protrarsi fino alle prossime elezioni negli Usa (novembre 2020), il commercio mondiale ne risentirebbe molto. Sta già accadendo: per la prima volta da 8 anni a questa parte esso ristagnerebbe nel 2019. I sommovimenti in Catalogna e le incerte vicende della Brexit testimoniano disfunzioni endemiche nei rapporti tra differenti livelli di governo che minano il consenso verso le istituzioni, elettive e non, e rendono più difficile affrontare progetti come la protezione comune dei depositi bancari o l’assicurazione europea contro la disoccupazione.
Su tutti questi temi non si ascoltano non dico urla ma neppure sospiri dall’Ue. Il presidente Draghi ha salvato l’euro, ma non la sua economia. Le istituzioni europee devono ritrovare il senso profondo della giustificazione pubblica e contribuire a modificare le aspettative di famiglie e imprese. Abbiamo tassi sotto zero e, al contempo, depressione del processo di accumulazione del capitale. Vuol dire che le persone non credono nel proprio futuro e manca, inoltre, un progetto collettivo. Può esserlo l’Europa? Io, ancora, credo di sì (con cambiamenti).