Perché il fenomeno dello sleep tourism invita a ripensare il lavoro

Un trend che riaccende i riflettori sull’impatto dell’iper connessione sulla vita personale e lavorativa e sul valore di un welfare personalizzato.

L’estate 2024 è stata segnata da due macro fenomeni, apparentemente opposti: over tourism e sleep tourism. Entrambi sono espressione della società della performance: nel primo caso definiscono vacanze che diventano occasione per rimarcare il senso dell’esperienza, del fare, dell’esserci e della condivisione sui social, concentrandosi in quelle località che si riducono a un turismo “scatta e fuggi”. Il secondo è l’altra faccia della medaglia: lavoratori che arrivano alle vacanze troppo stanchi e con un solo desiderio: dormire, possibilmente disconnettendosi. Anche se con i rientri di settembre e le attuali condizioni climatiche, estate e vacanze sembrano già un ricordo lontano, questi due fenomeni ci invitano a una riflessione rispetto all’impatto dell’iperconnessione e al valore del diritto alla disconnessione, parte attiva del dibattito sul mondo del lavoro in diversi Paesi europei ed extra europei.
L’iperconnessione, l’essere perennemente raggiungibili ovunque e a qualunque orario, ha in parte spinto verso la necessità di ritornare all’origine di un senso di vacanza più vicina all’otium degli antichi che all’esperienziale moderno. L’indagine di Skyscanner sul turismo nel 2024 vedeva quasi un quarto dei viaggiatori italiani dedicare al sonno le proprie vacanze estive. Un’esigenza che si è tradotta in business, con strutture ricettive che hanno ripensato la loro accoglienza nella promessa di un riposo davvero totale: maggiore confort, inviti a dormire di più e meglio, soprattutto limitando l’utilizzo di device elettronici invitando a una nuova igiene digitale, volta a ridurre i livelli di stress e il rischio burn out.

Disconnettersi

Di diritto alla disconnessione se ne parla già da diversi anni: tra i primi Paesi a tradurlo in normativa c’è stata la Francia, nel 2017, poi la Spagna nel 2018, il Portogallo nel 2021 e il Belgio nel 2022. Andando oltre oceano, anche in Australia è entrata in vigore una legge che sancisce il diritto per i lavoratori di aziende di medie e grandi dimensioni di non rispondere a mail e chiamate oltre l’orario di lavoro. Da questa estate anche in Inghilterra, dopo aver portato il tema in campagna elettorale, il partito laburista sta rendendo effettivo il diritto a spegnere i dispositivi elettronici connessi al lavoro una volta terminato l'orario contrattuale e consentendo ufficialmente ai dipendenti di rifiutarsi di svolgere attività lavorative extra nel fine settimana. Per il mondo del lavoro anglosassone si tratta di una prima rivoluzione del settore ed è parte del piano governativo "Plan to Make Work Pay" le cui misure sono state esplicitate durante il discorso di luglio di Re Carlo e prevedono anche il divieto dei contratti di sfruttamento a zero ore, la fine del “licenzia e riassumi” e la messa a disposizione dell’indennità di malattia dal primo giorno di lavoro. In Italia, dove pesa il fenomeno degli straordinari fantasma, è la Legge 81/2017 sullo smart working a citare il diritto alla disconnessione rimandando, però, all'accordo in essere tra azienda e lavoratore. Va detto, come già sottolineato in un articolo su Harvard Business Review, che senza una corretta organizzazione a poco serve una legge: se la mole di mail e telefonate che deve gestire una singola persona non viene organizzata a monte, spegnere il telefono dopo un certo orario non fa altro che aumentare lo stress. Val la pena domandarsi, lato azienda, da dove parta la necessità di arrivare a situazioni di iper connessione da parte dei dipendenti: è una questione di carico di lavoro eccessivo, di mancanza di personale, di organizzazione o di governance?

Il valore del welfare

Ecco perché lo sleep tourism rappresenta non solo un fenomeno sociale, ma diventa il campanello d'allarme di un mondo del lavoro ancora poco attento alle esigenze dei suoi lavoratori, in cui la disconnessione rappresenta una delle parti in causa e, come dimostra l'esperienza inglese, non va intesa come isolata, bensì integrata anche in logiche di welfare personalizzato. La strada per ambienti di lavoro più sani, d’altro canto, è ancora lunga: nel settimo Rapporto Censis-Eudaimon il 61,7% dei lavoratori dichiara che l’azienda in cui lavora non è attenta al benessere psicofisico dei propri dipendenti. I più insoddisfatti sono impiegati (62,3%) e operai (68,4%) con una netta diversità di opinioni rispetto a dirigenti e quadri anche a fronte di una maggiore positività da parte di specifiche categorie di lavoratori più vulnerabili. Il welfare aziendale, completo di un’analisi puntuale dei bisogni reali diviene sempre più centrale per prevenire e approcciare situazioni complesse e sviluppare una cultura della salute sul luogo di lavoro che sappia intrecciare esigenze del contesto e individuali in cui la vacanza possa tornare a essere un momento di relax, non la rapida fermata di un treno in perenne corsa.

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