I nostri progetti sono il nostro futuro. È questo principio che ci regala la speranza di un’evoluzione e di un cambiamento. Continuo a pensare, come dice Ricky Burdett, che “la Città sia la nostra migliore produzione collettiva” e che la qualità delle nostre città e del nostro commercio sia l’unità di misura del nostro vivere civile. Nell’anno dell’Expo, ad esempio, a Milano oltre a quelli dei luoghi ufficiali, sono stati sorprendentemente rilevanti i successi di alcuni fenomeni urbani collaterali quali il Mercato Metropolitano di Porta Genova, iniziativa che conferma il ruolo del commercio nel generare sostanza urbana e che mi auguro indichi la strada agli imprenditori visionari di ogni tipo. È la conferma di questa energia il segnale di direzione più incoraggiante per il futuro, mentre sempre più spesso le Città danno sfogo alla loro voglia di somigliare alle sorelle ricche del mondo e si assiste alla crescita vigorosa dei grattacieli globali, rischiando di perdere se stesse e la loro identità.
Alle facciate dei teatri, ai monumenti storici falsificati, la Città sa contrapporre un dietro le quinte tutto suo, fatto di spazi di relazione, di vuoti riorganizzati per nuove socialità, di corti, di mercati e iniziative in grado di esprimere il valore urbano della quarta dimensione, quella della temporaneità, dell’evento, delle forme di aggregazione. Se si leggono in questo senso le Città italiane, ci si troverà di fronte ad una ricchezza e varietà di sfumature che probabilmente costituiscono il vero patrimonio di questo paese. Ancor oggi, la salvaguardia delle identità delle Città è affidata più a ciò che non si vede che a ciò che si vede. Quando l’uso lascia qualunque costruzione, il degrado inizia inesorabilmente il suo corso, ma la sospensione del tempo e l’abbandono hanno come conseguenza anche quella di collocare i luoghi inutilizzati in uno stato speciale. Sono sensazioni che molti di noi hanno avuto il privilegio di condividere nelle rigenerazioni dei vecchi mercati urbani, ma anche nelle librerie e nei cinema storici, delle gallerie, negli edifici abbandonati dei nostri centri storici. Nella condizione di stasi, alcuni valori si conservano quasi intatti, altri mostrano potenzialità non scontate. Ma altri segnali vanno nella stessa direzione, ben definiti da Marc Augè in un celebre saggio. È ben vero che oggi il tessuto urbano si estende, ma nello stesso tempo noi facciamo sempre più fatica a definire ciò che Baudelaire chiamava la forma della Città. Si possono invece altresì concepire questi cambiamenti come segni di un nuovo mondo in gestazione, di un mondo, per la prima volta nella storia dell’umanità, estendibile simultaneamente a tutto il pianeta. Ci si renderà dunque conto che delle nuove sfide sono poste agli urbanisti e agli architetti. Gli spazi pubblici più frequentati, dove si realizza, spesso in modo selvaggio, l’apprendimento della vita sociale sono sempre di più gli spazi della circolazione e del consumo, dalle stazioni di ogni tipo fino agli ipermercati. È d’obbligo che in questi spazi la cura del legame sociale e la cura dell’estetica convergano, che l’apprendimento del sociale e quello del bello si realizzino simultaneamente. Del resto il segnale più evidente del prossimo futuro assume due forme: il ritorno della classe media nei centri storici e una nuova rinascita dello spazio-lavoro urbano. I grandi Office Park degli Stati Uniti, i luoghi di lavoro creati negli anni ‘70 e ‘80 e collocati nelle zone suburbane o extraurbane, tornano nel centro urbano e lo riconfigurano sia umanisticamente che economicamente. Oggi sappiamo che chi vive nel centro storico ha un impatto minore sull’ambiente rispetto a chi vive nelle aree suburbane e si rivela in realtà come il più sostenibile dal punto di vista ambientale ed energetico.