La crescente attenzione al tema della sostenibilità nelle attività produttive del tessile-abbigliamento, caratterizzate da elevati indici di inquinamento, richiede alle imprese del settore un grande sforzo per la riduzione dell’impatto ambientale di processi e prodotti.
In realtà, a preoccupare non è solo l’incidenza dei processi produttivi sull’ambiente, ma anche alcune importanti questioni sociali legate alle pratiche di esternalizzazione massiva delle produzioni, verso paesi che presentano minore attenzione ai diritti umani e alle condizioni dei lavoratori, e quelle correlate al maltrattamento degli animali.
Tutto ciò richiama sempre più l’attenzione della società civile e dei mercati che richiedono con forza importanti cambiamenti nei modelli di produzione e di business del tessile/abbigliamento.
Molte le imprese italiane che, per rispondere a queste sollecitazioni, dichiarano di controllare minuziosamente la catena di fornitura, richiedendo ai propri partner di affidarsi ad un solo livello di subfornitura o, diversamente, di rivolgersi esclusivamente a partner locali, per garantire la qualità e la sicurezza dei prodotti, nonchè di curare direttamente le fasi di sviluppo e industrializzazione del prodotto.
Nella pratica si stanno facendo strada scelte manageriali che portano a produrre in Italia e/o a fermarsi ad un primo livello di fornitura. Queste scelte, però, rischiano di scoraggiare gli imprenditori dall’intraprendere una reale riconversione sostenibile dei modelli di business, alla luce dei maggiori costi che indubbiamente si troverebbero a sostenere nell’organizzare prevalentemente il ciclo produttivo in Italia. Rispetto a scelte di delocalizzazione nei paesi asiatici, che finora hanno consentito la competitività del comparto, le imprese stando puntando sul re-shoring di alcune attività o, comunque, sulla riconversione solo di alcune fasi del processo produttivo, rischiando di non essere credibili e di minare la fiducia del mercato già troppe volte scosso dai numerosi scandali che hanno interessato il settore.
L’idea che per garantire sostenibilità ai capi di abbigliamento bisogna produrli in Italia è in realtà una falsa credenza.
La Cina, ad esempio, leader mondiale nell’export di tessuti e capi di abbigliamento, con il 48% della produzione globale (WTO, 2019), vanta un apparato normativo tra i più rigidi in materia ambientale.
Già nel XII Piano Quinquennale per lo Sviluppo Economico e Sociale Nazionale 2011-2015, la corporate social responsibility (CSR) appariva come un importante vettore per lo sviluppo del Paese e delle sue relazioni economiche e commerciali; nel XIII Piano Quinquennale, per il settore T&A, si fa esplicito riferimento all’impegno verso una ‘industria più verde’, prevedendo la riduzione del consumo di energia, acqua e inquinanti e raddoppiando il consumo di tessili riciclati; così come nel piano “China Textile Go Global Union” si fa esplicita menzione della sostenibilità ambientale.
Il mondo istituzionale, nonché le associazioni di settore cinesi, sono orientate a fare della sostenibilità una leva competitiva per sostenere le esportazioni del tessile-abbigliamento e le imprese cinesi sono sempre più convinte che l’approccio eco-friendly sia necessario in riferimento tanto al domestic market quanto a mercati esteri.
Se in passato la Cina ha fatto leva sul fattore price per sostenere la crescita del settore, oggigiorno governo ed imprese sono impegnati ad identificare nuovi driver che possano consentire il recupero delle quote di mercato, perse in seguito alla crisi internazionale, di differenziarsi dai competitor emergenti (Vietnam) e di facilitare la ricerca di nuovi sbocchi di mercato lungo le dorsali della Belt & Road Initiative, nonché di migliorare la reputation a livello internazionale e sul mercato interno. La sostenibilità fa parte delle azioni su cui la Cina sta puntando: un esempio è la richiesta obbligatoria a tutte le imprese statali cinesi, che si trovano lungo la B&R Initiative, di aderire alla CSR e di rendicontare le azioni intraprese ed i miglioramenti ottenuti, come pure la stessa sollecitazione è diretta anche alle imprese non statali.
Alla luce di questa, come di altre iniziative, si crede che le imprese italiane del tessile/abbigliamento possano intraprendere una strada alternativa alla filiera corta, per garantire prodotti moda sostenibili, una strada certamente complessa che costa di scelte relative la “rigenerazione” delle supply chain internazionali, il sostegno all’innovazione e la corretta informazione al mercato, ma che possa fare della sostenibilità una leva strategica che non comprima l’efficienza e rafforzi la competitività delle nostre imprese.
(*) Professore di Management e docente di Strategie Aziendali di Sviluppo Sostenibile presso l’Università di Napoli L’Orientale