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1. La produzione programmata ha un ciclo di 15 mesi e più
2. Il sistema fast fashion contrae i tempi a poche settimane
3. L’informazione è l’asset intangibile più importante nei sistemi di produzione veloci
Nel settore moda-abbigliamento, la catena di fornitura è sempre più elemento centrale per il business e fattore abilitante a modelli innovativi. Il fenomeno fast fashion è un esempio eloquente anche se di difficile sistematizzazione rispetto alle più importanti best practice. Il mercato ha evidenziato negli ultimi anni come si renda necessario legare l’abbigliamento alla componente moda/fashion rifuggendo da logiche banalizzanti. Queste ultime determinano un impatto riconoscibile nella catena del valore, nel metodo produttivo che, in larga misura, si antepone a quello del fast fashion o analogo.
Da push a pull
La componente aspirazionale dei consumatori moderni è l’elemento trainante nel mondo fashion nel quale, a disparità di budget per l’abbigliamento, sono parificabili le esigenze del consumatore. In un contesto come l’attuale dove il desiderio di esaltare il look della propria immagine è massimo, il mercato è sospinto dalle esigenze dei consumatori e non è più dominato dall’offerta (push) ma regolato dalla domanda (pull) così da cortocircuitare alcuni modelli produttivi e renderli inefficaci.
Negli ultimi anni, la delocalizzazione delle produzioni verso paesi a minor costo del lavoro unitamente all’utilizzo esteso dell’outsourcing ha allungato notevolmente (a livello geografico) la suppy chain di molti player del mondo abbigliamento. Un allungamento che davanti a innegabili saving sul versante costi di produzione, ha inserito delle rigidità nei tempi di risposta al mercato. Una supply chain di tipo push, tradizionale, è tipica di mercati massivi a elevata banalizzazione dove la componente emozionale è ridotta o azzerata. Se è vero che nel settore abbigliamento molti capi sono degli evergreen, destagionalizzati e lontani dal mondo modaiolo, è altrettanto vero che è solo l’ambito fashion a garantire i business più redditizi. Si assiste così al tentativo di assegnare a tutti i tipi di produzione una connotazione fashion attraverso nuovi stilemi di concept e desing anche da parte di player tradizionalmente lontani dall’universo moda. Ma non è solo una questione di stile, soprattutto di tempo di vita del prodotto e della necessità di incrementare le velocità di rotazione. Un risultato che, in qualche misura, si antepone a filiere lunghe a basso valore aggiunto, difficili da coordinare su progetti sofisticati e dinamici nella loro evoluzione.
Produrre on-demand
Se nel settore dei servizi la modalità on-demand è legata a un modello di erogazione su richiesta, estremizzando il concetto, si può dire che nella produzione di beni l’on-demand può essere identificato nel più efficiente just in time che determina la riduzione a livelli minimi dei magazzini raggiungendo lead time virtualmente nulli dalla richiesta del consumatore alla sua soddisfazione. Nel fashion il just in time è ancora più arduo da implementare in quanto si contrappongono due fattori: da un lato l’offerta deve stimolare il consumatore (che nel fashon non è spinto dallo stesso tipo di necessità che sostiene il business del mondo consumer good); di converso il consumatore è svincolato e autonomo e quindi padrone del successo delle collezioni. Tradizionalmente le aziende di abbigliamento hanno impostato la produzione in funzione dei risultati delle vendite della campionatura che dipendono dalla risposta del canale retail. Un sistema che tende a trasferire a valle il rischio e che prevede oltre un anno per realizzare l’intero ciclo: dal desing al punto di vendita. Questo modello produttivo consente di delocalizzare senza particolari vincoli la produzione subito dopo la fase di procurement di tessuti e filati (svolta in house) semplicemente specificando gli ordini ai terzisti di turno (che generalmente possono concorrere con un basso valore aggiunto). Lo spostamento verso logiche fashion comporta dei tempi molto più brevi e soprattutto la necessità di attuare delle strategie di diversificazione e sofisticazione dei capi tale da rendere la produzione più complessa e critica. Le soluzioni per fronteggiare tale sfida possono essere molteplici e ogni player di spicco ha attuato un modello produttivo sempre originale. La semplificazione massima prevede l’integrazione a monte dove dal concept e design al prodotto finito i possessori dei processi sono ridotti e, in larga misura, sono in seno alla stessa organizzazione. Ma la tendenza attuale va nella direzione opposta con una deverticalizazione marcata. Tuttavia, rispetto ai leader di mercato, è l’integrazione a valle a rappresentare la strategia maggiormente perseguita. Non solo dai leader del fast fashion come Zara, H&M, Mango e altri, ma anche da player che da decenni presidiano il settore come Ovs, Upim, Benetton.
La necessità di comprimere i tempi di c2c (concept to customer) non è nuova e ha conosciuto diverse modalità anche nel passato. In Italia, con grande anticipo sulle modalità del fast fashion, è ben consolidato il pronto moda. Si tratta di un sistema produttivo che gli esperti e gli studiosi del settore hanno ben inquadrato in termini di gestione della supply chain. Il prontista gioca le sue carte migliori sfruttando una filiera molto rapida soprattutto nella capacità di approvvigionamento. I modelli sono tratti dalle sfilate e dagli appuntamenti più importanti del mondo fashion e realizzati nelle fasi più importanti internamente anche se la confezione può essere in outsourcing. Il link con i canali retail si instaura dai grossisti che fanno da ponte logistico tra produttore e rivenditore.
Extended supply chain
L’avvento del fast fashion ha stravolto il mercato della moda con una crescita incessante nei paesi europei più importanti. In Italia le stime più prudenti assegnano al fast fashion il 10% di quota di mercato ma probabilmente alla fine del 2009 tale valore sarà più che raddoppiato.
Aziende come H&M e Zara hanno conosciuto crescite imponenti nel senso stretto del termine. Basti dire che oggi Inditex proprietaria di Zara ha raggiunto un giro di affari di circa 10 miliardi di euro, quasi 5 volte quello di Benetton. E questo grazie a un modello di marketing, produzione e distribuzione basato sul time-to-market più breve (oltre un ordine di grandezza) del fashion tradizionale e sulla capacità propositiva incessante. Oltre al marketing che nel concept & design ha il punto di forza in grado di fare la moda, dietro vi è una filiera produttiva di grande valore dove i fornitori sono spesso verticalizzati sulla mission e detengono una porzione di valore dell’intera filiera sconosciuta ad altri modelli di supply chain. Le aziende che operano con il modello fast fashion non fanno campionatura e si può dire che producono “al buio”. La supply chain parte da un concept & design che prende ispirazione dai trendsetter del fashion per realizzare collezioni in tempi rapidi che vanno off-line nel periodo di poche settimane. Similmente a quanto fanno i prontisti, gli operatori del fast fashion saltano la fase di campionatura ma realizzano prodotti più sofisticati attraverso un’organizzazione nella quale i terzisti diventano partner e prendono parte anche a fasi creative o a elevata ingegnerizzazione con tecnologie anche customizzate. Con un rapporto di questo tipo si attua ciò che in letteratura prende il nome di extended supply chain, un modello nel quale i processi diventano orizzontali e travalicano i confini dell’azienda dominante.
Il valore dell’informazione
Nel modello produttivo legato al fast fashion assume un ruolo centrale un asset intangibile e generalmente marginale nella produzione programmata: l’informazione. I vari soggetti che concorrono alla realizzazione delle componenti dei capi interagiscono anche con la possibilità di trasferimento di parte del know how quando è generato e condiviso con l’azienda dominante. Per quest’ultima il flusso informativo è essenziale per gestire non solo la filiera produttiva ma anche e soprattutto quella creativa. La parte di concept & design si dispiega attraverso un legame strettissimo con il marketing e il procurement che abilita la possibilità di concretizzare le collezioni nel lasso di tempo previsto. La gestione del rischio è quindi delegata a una cinghia di trasmissione stretta che traduce il feedback dei consumatori in idee, tendenze e produzioni. Soprattutto in un contesto dove il brand è sempre più legato al retail e ne simboleggia i contenuti.
Più e meno
Quanto vale a regime in termini di quota di mercato il fast fashion? Probabilmente la proporzione tra fashion programmato e fast fashion è paragonabile a quella che si sta instaurando tra discount e gli altri format nella grande distribuzione e dipende dal paese.
Dietro questo fenomeno si possono trovare elementi di grande valore ma anche criticabili. Da un lato vi è stato un salto in avanti nell’ingegnerizzazione della supply chain. Una filiera integrata, flessibile e caratterizzata da un saper fare sconosciuto a quella tradizionale. Un saper fare che può trarre linfa da logiche neodistrettuali. Vi sono diversi studi a riguardo e per alcuni esperti il fast fashion può essere un modello in grado di far rientrare alcune fasi produttive oggi in offshoring (cfr. “La rivoluzione del fast fashion” dell’economista Enrico Cietta). Tuttavia non si può trascurare che il fast fashion presuppone delle rotazioni molto elevate che consumano grandi risorse ambientali. E su questo tema vi è molto da discutere e indagare.
Fast Fashion in Italia
20% la quota di mercato
120 le aziende
2.500 le imprese
5.500 gli addetti
Fonte: Bologna Fiere,
Bain&Co e Diomedea
Più
- Filiera a elevato valore aggiunto
- Capacità creative e realizzative
Meno
- Complessità di gestione
Upim fa logistica on-demand
- Con 80 anni di storia alle spalle Upim è oggi il 4° player nel retailing dell’abbigliamento in Italia. Il network conta 150 punti di vendita diretti e 200 in franchising. Il 3 giugno 2009 è stato inaugurato un nuovo centro logistico a Pontenure in provincia di Piacenza che ha modificato il modello logistico rendendolo più flessibile rispetto alle richieste dei negozi. I flussi di consegna che partono da Pontenure non sono più rigidi e preordinati su lungo periodo ma basati sul riordino mirato al fine di minimizzare gli stock e gestire meglio le rotazioni. L’obiettivo è quello di rendere la parte di supply chain a valle più rapida e flessibile.
- Il nuovo centro è realizzato su una superficie di 146.000 mq e dispone di un magazzino alto 12 metri e ampio 53.900 mq con una riserva edificabile di altri 13.000 mq. Il tetto è realizzato con pannelli fotovoltaici in grado di produrre 2,8 Mw. La rese energetica consente di risparmiare emissioni di CO2 pari a 1.600 t all’anno.
Allegati
- Moda10-supplychain
- di Francesco Oldani / gennaio 2010