
Meta, Harley-Davidson, McDonald’s, Target, Walmart: sono solo alcuni dei grandi nomi che negli Stati Uniti hanno abbandonato -o ampiamente ridimensionato- i programmi per diversità, equità e inclusione (DE&I) spinte dall'arrivo alla presidenza di Donald Trump, noto detrattore in proposito. Una grande retromarcia dai contorni caotici le cui conseguenze sono ancora tutte da osservare, sia lato risposta dei consumatori, sia sul fronte aziendale interno.
Attenzione però, il dietrofront in Usa non è unanime: alcune aziende come Costco, JPMorgan Chase e Goldman Sachs hanno reso noto che non apporteranno grandi cambiamenti alle loro strategie di DE&I. E questo non necessariamente perché vogliono dichiarare apertamente il loro sostegno a tali valori, facendone una questione di posizionamento, ma perché ritengono che i programmi già in atto siano vantaggiosi per il business. Lo snodo è proprio questo e non è un caso che chi meglio ha misurato e monitorato gli effetti di queste iniziative, portando agli stakeholder fatti e numeri anziché opinioni, oggi sia poco propenso a rinunciarvi. Al di là dell'adesione più o meno autentica e sentita alla DE&I, in tempi di ideologie e polarizzazioni del dibattito la risposta essenziale è quella razionale e analitica, considerato che davanti al profitto e al vantaggio economico anche i meno "credenti" non storceranno il naso. Sebbene la situazione ad oggi in Europa sia diversa e questi programmi siano ancora incentivati, questo aspetto dovrebbe fare da bussola per il futuro.
L'impatto economico della DE&I
Vediamo allora, in tema di numeri, i risultati del Diversity Brand Index 2025* (tutte slide nella gallery in chiusura) ideato e curato da Fondazione Diversity e Focus Mgmt. Secondo quest'ultimo il differenziale di crescita dei ricavi continua a salire a favore delle marche più virtuose e impegnate: +24% per i brand che lavorano con continuità sulla DE&I a livello b2c e +20,1% per quelle aziende che hanno iniziato a farlo di recente o con minore continuità. Questo nonostante si registri un lieve aumento delle persone più ostili alle diversità (+3,8%), dato che aprirebbe svariate riflessioni sull'importanza della comunicazione (compreso il diversity-washing che nel tempo disillude l'interlocutore) e sul ruolo della politica quando si appropria di certi temi sociali. D'altro canto, per i consumatori questi concetti sono sempre più familiari e 7 persone su 10 preferiscono o scelgono con convinzione aziende che parlano di inclusione (Net Promoter Score - NPS pari a +69,4%, -4,2 p.p. rispetto all'anno scorso) e di contro non consiglierebbero le marche percepite come non inclusive (-67,5%, +20 p.p.), mentre 3 su 10 non accettano nemmeno quelle “neutrali” e che non prendono posizione (-32%, +31,4 p.p. rispetto al 2024). Un passaparola determinante nel differenziale nella crescita dei ricavi a favore dei brand ritenuti più inclusivi.
Pochi i cambiamenti sulla composizione settoriale dei primi 50 brand percepiti dal mercato come più inclusivi: il retail resta il segmento più ampio (in crescita al 26% complessivo, +2 p.p. rispetto al 2024), stabile al secondo posto l'apparel & luxury goods (22%, come nel 2024); completano il podio le aziende legate all'healthcare & wellbeing, ancora in salita col 12% (+2 p.p.), seguite dall’information technology (10%, +2 p.p.); salgono anche fmcg (beni di largo consumo, all’8%, +2 p.p.) e consumer electronics (6% complessivo, +4% p.p.), mentre restano stabili consumer services (al 6%). Scendono invece toys (4%, -2 p.p.), telco e media (entrambe segnano un -4 p.p., rappresentano il 4% congiuntamente). Escono dalla rilevazione automotive e utility, mentre fa il suo ingresso il settore airlines (al 2%).
“L’aumento dei brand associati dal mercato finale al concetto di inclusione è emblematico della rilevanza della DE&I nel contesto contemporaneo. Emerge l’esigenza di dare continuità allo sforzo delle marche. La differenza nella crescita dei ricavi registrata per i brand presenti con continuità nella Top 10 del Diversity Brand Index dimostra i benefici di un approccio costante e coerente, rispetto a sforzi estemporanei. Nonostante talvolta il dibattito mediatico si focalizzi sui dubbi di investire su questo fronte, i dati del mercato finale sono inequivocabili”, sottolinea Emanuele Acconciamessa, chief operating officer di Focus Mgmt: “Il modo migliore per dissipare i dubbi, spesso strumentalizzati, è fare riferimento ai numeri e quelli del Diversity Brand Index sono una solida risposta, strumento che dà anche indicazioni strategiche sulle prossime attività per i brand inclusivi: puntare sulle nuove generazioni, Gen Z e Millennial, che hanno di base una sensibilità più spiccata sul tema per attivarle con azioni concrete e coinvolgenti, tangibili e ad alto impatto, per rendere il coinvolgimento più pratico. Dall’altra, occorre ridurre il percepito di disillusione, legando la comunicazione DE&I a risultati reali per ricostruire la fiducia di chi l’ha persa”.
Gallery: la DE&I in numeri
*Survey web alla quale nel corso del 2024 ha risposto un campione statisticamente rappresentativo della popolazione italiana composto da 1.005 rispondenti.