Rese sempre più basse, prezzi sempre più alti. Il climate change spinge anche il settore dell’olivicoltura a investire in agricoltura di precisione, ricerca su varietà più resilienti, accordi di filiera. Ma serve maggiore consapevolezza dei consumatori sull’olio evo. “Se non scatta quella non riusciremo a far investimenti” racconta Nicola Di Noia, responsabile olio Coldiretti.
Che stime abbiamo sulla produzione d’olio italiano per questa stagione?
Dovremmo assestarci sulla produzione dello scorso anno: non ci aspettiamo un’ulteriore riduzione, ma neppure un aumento rispetto alle 280-300 mila tonnellate mediamente prodotte negli ultimi anni. Una previsione reale si potrà avere da metà ottobre in poi. Per la Spagna ci si attende, invece, la conferma di un trend negativo come già registrato lo scorso anno. La scarsità di olio spagnolo condiziona la disponibilità di prodotto sul mercato mondiale e determina l’impennata dei prezzi già in atto da diversi mesi.
Stupisce il dato spagnolo: vuol dire che superintensivo e intensivo non sono il modello cui guardare?
Intensivo e superintensivo sono nati per ridurre manodopera e costi di produzione, consentendo una meccanizzazione spinta. Questi modelli di impianto sono irrigui e non ha senso realizzare questi tipi di impianto se non si ha a disposizione molta acqua. Fino a qualche anno fa l’ulivo era considerata pianta invincibile per le condizioni climatiche, resiste alla siccità: ma tra resistere e produrre c’è una differenza. Il problema a monte è il cambiamento climatico che ci deve indurre a modificare l’impostazione colturale dell’ulivo.
Ovvero?
Dobbiamo dotarci delle migliori tecnologie innovative per non disperdere l’acqua. Il modello a goccia è stato superato dalla subirrigazione. Ecco perché da anni Coldiretti spinge per investire in bacini irrigui. E bisogna proseguire sulla strada dell’applicazione delle innovazioni tecnologiche con tutti gli strumenti di “precision farming”, per ridurre l’impiego dei fattori produttivi, ottimizzare i costi di gestione e aumentare le rese.
Ma il superintensivo è un modello possibile?
Per le caratteristiche del nostro Paese è più corretto parlare di diversi modelli possibili di olivicoltura. Intensivo e superintensivo sono soluzioni da percorrere dove sussistono le giuste condizioni pedoclimatiche e dove c’è la disponibilità di acqua richiesta da questi impianti. Non dobbiamo assolutamente dimenticare, però, che l’Italia vanta il record della biodiversità: è il fattore distintivo che ci differenzia, con 500 cultivar che ancora non conosciamo bene. Sarebbe importante che la ricerca lavorasse su cultivar italiane adatte a questi modelli, che si possono attuare in pianura. Le colline però non si devono abbandonare perché l’ulivo è anche un patrimonio paesaggistico, storico e culturale: l’abbandono degli uliveti avrebbe un impatto negativo sui nostri caratteristici ambienti rurali, oltre a incrementare i rischi di dissesto idrogeologico, incendi.
Investire dunque in varietà italiane adatte e anche resilienti a patogeni.
Con la Xylella stiamo giocando con un problema enorme che potrebbe mettere a rischio l’intera olivicoltura mondiale. Per fortuna grazie al Cnr di Bari, che sta lavorando da dieci anni, abbiamo due cultivar, e speriamo presto altre, che sono state ritenute resistenti. Questa situazione di difficoltà indotta dai cambiamenti climatici e dalla diffusione di nuovi patogeni può rappresentare un’opportunità per un salto in avanti della ricerca sui fattori di resistenza delle cultivar italiane alle differenti avversità.
La sostenibilità può essere una chiave per una svolta culturale del prodotto made in Italy?
Sì, la sostenibilità va vista a 360 gradi, ambientale, sociale ed economica e deve essere una sfida per tutti gli attori della filiera. Sono convinto, inoltre, che bisogna puntare in modo deciso sui benefici nutrizionali e salutistici dell’olio evo di qualità. L’olio non ha ancora partner evoluti a livello internazionale: la Spagna sta cominciando oggi a fare oli di alta qualità. L’Italia è stata un po’ sola negli anni a perorare questa causa.
Cosa occorre fare per raggiungere questa piena consapevolezza sull’olio evo made in Italy e uscire dalla percezione di una “commodity”?
Per noi la strada maestra è quella della formazione e la percorriamo con convinzione e determinazione. Abbiamo, infatti, creato la Fondazione Evo School per la formazione, dedicata ai consumatori, agli appassionati e a tutti i professionisti che lavorano nelle varie fasi della filiera. Consumatori formati e consapevoli richiederanno prodotti di qualità; operatori aggiornati applicheranno le migliori best practice nelle loro attività: un circolo virtuoso per posizionare adeguatamente l’olio evo di qualità. Altro aspetto è essere decisi sulla valorizzazione merceologica dell’olio evo di qualità: anzi, forse i tempi sono maturi per definire parametri più stringenti.
Gli accordi di filiera sono uno strumento straordinario per migliorare le relazioni nella filiera e aiutare il settore ad avere stabilità. Uno dei problemi è che il prezzo dell’evo non è costante, ma può subire forti oscillazioni in base alla disponibilità di materia prima. Purtroppo in questa progettualità spesso è assente la distribuzione. Deve essere il consumatore a premiare questi prodotti incentivando così l’emulazione. Come Coldiretti facciamo la nostra parte per il riconoscimento dei prodotti di filiera, che garantiscano la tracciabilità 100% italiana, la qualità e la giusta remunerazione della componente agricola. Abbiamo creato il marchio Firmato dagli agricoltori italiani, per contraddistinguere questi prodotti.