Siamo a Spoleto (Pg), a Casa Menotti; sono i giorni del Festival dei 2Mondi e nella città umbra c’è quella atmosfera magica che solo le arti possono regalare. Qui incontro la padrona di casa Maria Flora Monini, che, nel corso dei giorni passati insieme a Spoleto, ho imparato a conoscere ed è diventata, anche per me, Pitti.
“Nasco come Maria Flora Monini, figlia di Giuseppe Monini e Marta Mastrolia, ma fin da piccola mi hanno chiamata Pitti. Entrando nel mondo del lavoro, mi presentavo come Maria Flora, ma poi tornavo Pitti. Entrambi i nomi mi rappresentano, Maria Flora è un po’ seriosa, Pitti è giocosa, creativa e bizzarra. Io sono così ... poliedrica”.
Come sei arrivata in azienda?
Come tutti i ragazzi di Spoleto, a 15 anni ho cominciato a lavorare durante il Festival come commessa o hostess nelle boutique o gallerie d’arte. Poi ho fatto una breve esperienza universitaria a Roma senza grandi successi; quindi mio padre, molto furbo, con una scusa, mi chiese se volevo andare a dargli una mano in ufficio qualche giorno a settimana. Così ho iniziato, facevo praticamente la fattorina: andavo in banca, all’ufficio del registro, alle poste, stavo al centralino. Ho iniziato a essere sempre più presente e, quando ho deciso di lavorare in azienda, ho chiesto di occuparmi di estero, così ho iniziato: con la mia valigetta a vendere l’olio Monini in giro per il mondo.
E come è andata?
Bene. Ho cominciato a fare le fiere all’estero e a trovare clienti; ero una ragazzina, avevo 21-22 anni, ho aperto vari mercati e ho viaggiato tanto: ho visto il mondo, tante cose, idee, spunti che ho riportato a casa. Come la nostra etichetta del Gran Fruttato: tornando da un viaggio in America, dove vedevo oro ovunque, proposi a mio padre un’etichetta bianca e oro, che allora non si era mai vista; così è nata quella del Gran Fruttato, che ha segnato l’inizio dell’utilizzo dell’oro a caldo nelle etichette dell’olio.
Come è cambiata la Monini da allora?
Tanto: quando entrai, il mercato era per l’80% olio d’oliva e per il 20% extravergine, oggi siamo completamente ribaltati. Era, e per certi versi è anche rimasta, un’azienda prettamente familiare: allora c’era mio papà che faceva tutto, aveva una scrivania dove era circondato da bottoni, apriva il cancello, rispondeva al telefono, accendeva la luce, chiamava il reparto, aveva le vetrate per vedere le linee di produzione, si occupava di tutto, dagli acquisti alla logistica, alla materia prima, il commerciale, il marketing. Era la seconda generazione, la prima era mio nonno. Adesso la Monini, grazie anche alla partnership con la Findim dall’88 al 2001, che ha dato un imprinting, un know-how manageriale, è un’azienda strutturata, con processi decisionali e competenze ben definite.
Come è andata la transizione?
Il passaggio generazionale è coinciso anche con l’ingresso di Findim in azienda. La Monini, con mio padre e mio zio, che intanto erano invecchiati, viveva momenti difficili, l’azienda soffriva; quindi mio zio decise di vendere parte delle sue quote e cedemmo un 35% dell’azienda alla Findim, che era la holding della famiglia Fossati della Star: quella esperienza è stata la mia università, perché sia io sia mio fratello abbiamo imparato tantissimo da loro. Poi quando, purtroppo, nel 2001, è venuto a mancare Luca Fossati, una persona stupenda, abbiamo deciso di ricomprarci l’azienda e siamo ritornati al 100% proprietari. Io e mio fratello.
Pitti è cambiata da allora?
Sì, è cambiata tanto, la vita con i suoi sbagli, le sue difficoltà, mi ha insegnato che ti devi mettere in gioco affinché cambi qualche cosa. Sono una persona che prende sempre tutto di petto e si fa anche del male a volte; ho lavorato molto su me stessa e sono cresciuta. La Pitti di una volta ancora torna, con la sua impulsività, ma sono attimi. Oggi sono molto più calma, più riflessiva ...
Questo come si riflette sul lavoro?
Non è facile, perché vengo da una famiglia prettamente maschilista; per mio padre la donna era la regina della casa, ma tutto il resto ... Mia madre non sapeva nemmeno quanto costasse un litro di latte o un chilo di pane, perché faceva la spesa ordinandola e papà pagava i conti, non ha mai tenuto la contabilità delle bollette. E la figlia femmina era intoccabile: doveva trovare un marito che le volesse bene, che la mantenesse, che pensasse a lei, e il maschio era colui che portava il nome della famiglia. Non a caso mio fratello si chiama come mio nonno e il figlio di mio fratello porta il nome di mio papà. Quindi, per me non è stato facile: soffrivo dell’importanza che papà dava al maschio, ma non percepivo l’amore viscerale che mio padre nutriva per me: era una guerra, uno scontro continuo. Ho combattuto fortemente, contestato: volevo fare il maschio della situazione, e questo un po’ mi è rimasto dentro. Non a caso non mi sono mai sposata, ho fatto due figli, ho gestito sempre tutto io, non volevo essere come mia madre, dipendente da un uomo: io mai nella vita avrei fatto lo stesso. Volevo la mia indipendenza, non dover chiedere niente a nessuno, fare tutto per conto mio, non dover dire grazie. Adesso mi rendo conto che mio fratello è stato caricato di responsabilità fin da piccolo, è nato con un piano di vita già scritto, io invece no. Una libertà che oggi apprezzo.
Siamo a casa Menotti, la fondazione Monini ha investito in questo spazio ... Ma quanto c’entra con l’olio?
Niente. Sono stata categorica: la fondazione Monini per la gestione di Casa Menotti non doveva essere un’azione di promozione del marchio e continuo ad essere ferrea su questo; il marchio Monini non deve essere veicolato dentro Casa Menotti, a eccezione della terrazza, il salotto dove ospitiamo amici, artisti del festival, ma rimane un luogo riservato. Il resto della casa è un omaggio di riconoscenza verso il maestro Menotti, che ci ha insegnato tante cose bellissime, e questo spazio è dedicato a lui, alla città e al mondo intero.
Casa Menotti non è un veicolo di pubblicità per la Monini.
Torniamo all’olio allora: tanta è l’offerta a scaffale, ma come dirimersi?
L’attenzione alla qualità è fondamentale; da 20 anni siamo nel Consorzio Extravergine d’Alta Qualità, che sta lottando per il restringimento dei parametri di classificazione dell’extravergine, nati tanto tempo fa, ai primi del 900, con un range che va da 0,1 a 0,8: il parametro dell’acidità perché un olio venga classificato extravergine. Un margine però un po’ troppo ampio. Il termine extravergine ad oggi è troppo vasto: un conto è un olio che ha lo 0,2 e un altro quello che ha lo 0,8. Da anni, stiamo lavorando per restringere questa categoria in una definizione di Alta Qualità che rientri tra 0,1 e 0,4 massimo. Difficilissimo. Sia ai produttori sia ai confezionatori non piace. Però il consumatore ne trarrebbe vantaggio.
Monini come si racconta?
Siamo stati antesignani di tanti filoni di comunicazione su questo mercato: lo storytelling, noi davanti alla macchina da presa, poi la scarpetta dello spot “tra condimento e godimento” ... Abbiamo aperto tante strade di comunicazione.
La prossima?
Una sorpresa.