La miglior difesa è l’attacco: l’Italia gioca d’anticipo sull’Europa e a Roma, presso il Masaf, è stato presentato EquiPlanet, uno standard “olistico” di certificazione della sostenibilità, specificatamente destinato alle imprese agroalimentari, allineato con i principali standard internazionali di reportistica e certificazione, in conformità con gli SDGs dell’Agenda Onu 2030.
Gli sviluppatori
Lo standard nasce per iniziativa e dal confronto di due realtà. La metodologia è stata sviluppata da Santa Chiara Next, spin-off dell’Università di Siena, in collaborazione con lo United Nations Sustainable Development Solutions Network e il Columbia Center on Sustainable Investment della Columbia University; l’altro attore è Valoritalia, tra i leader di certificazione del comparto, che ha maturato un’esperienza operativa con Equalitas, la certificazione di sostenibilità delle imprese vitivinicole riconosciuta dai principali operatori internazionali. Nata per coprire le esigenze delle denominazioni di origine vitivinicole, Valoritalia ha ampliato i servizi alle certificazioni green, che oggi vedono coinvolte circa 12 mila imprese.
Cosa certifica
Alle aziende è richiesto di stabilire obiettivi misurabili (la qualità del dato è il futuro), impegnarsi a migliorare le performance di sostenibilità, pubblicare un bilancio di sostenibilità annuale redatto con gli standard internazionali previsti dal Global Reporting Iniziative, rispondere della filiera e contribuire anche alla promozione di un’alimentazione healthy, stimolando le aziende a dare il contributo informativo su quello che fanno per una dieta sana (nell’ottica di quella mediterranea) non solo sostenibile. Lo standard si articola in 4 ambiti: buona cittadinanza d’impresa, sostenibilità di operazioni e processi, sostenibilità della catena di fornitura, prodotti e strategie che contribuiscono a diete sane e sostenibili. Ognuna si articola poi in specifiche tematiche, 20 complessivamente. Tra queste, garantire pratiche anticorruzione, rapporti con la comunità locale, tutela dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, difesa della biodiversità, attenzione al risparmio idrico, gestione dei rifiuti ed economia circolare, sicurezza degli alimenti ed etichettatura. Per raggiungere gli obiettivi vengono poi indicati 88 requisiti, tutti in linea con le azioni stabilite dallo United Nation Global Compact.
Il ruolo chiave del credito bancario
“Lo standard è rivolto alle aziende, alla conformità dei processi, e non certifica la sostenibilità del singolo prodotto -ha sottolineato Giuseppe Liberatore, direttore generale di Valoritalia-. Per elaborarlo ci sono voluti 2 anni. Mancava uno standard per le imprese agroalimentari, allineato con quelli internazionali di reportistica. Una certificazione che avesse un approccio olistico. È importante a livello reputazionale ma anche per venire incontro alle esigenze degli istituti di credito. I costi? Da poche migliaia a qualche decina”. Nonostante il verde si sia un po’ sfumato a fine legislatura, l’Ue ha costruito una ragnatela complessa di direttive e regolamenti (molti ancora da approvare) con la mossa di legarsi agli istituti di credito. Il che rende quasi inevitabile adeguarsi. “Il tema nuovo, e importante per un Paese bancocentrico, è la finanza -ha precisato Angelo Riccaboni, presidente di EquiPlanet e già rettore
dell’Università di Siena-. Le banche subiscono la pressione dalla Bce per destinare risorse ad aziende sostenibili e hanno bisogno di certificazioni per capire quanto lo siano. Quando le aziende cominceranno a vedere che ci sono i bond legati alla sostenibilità e che quelli più bravi hanno condizioni migliori, seguirà l’emulazione”. Ci sono poi almeno altri due aspetti che portano a intraprendere prudenzialmente scelte che vadano in questa direzione. Non solo i finanziamenti delle banche saranno sempre più dipendenti da rating differenziati in base al grado di adesione ai requisiti della sostenibilità, ma anche i bandi europei si legheranno agli impegni green. Senza dimenticare i nuovi obblighi crescenti in tema di reportistica di sostenibilità. “Essere sostenibili aiuta alla partecipazione a bandi. Dobbiamo poi adeguarci alla nuova normativa europea sui report di sostenibilità. Oggi sono 200-300 le aziende interessate ma la nuova normativa porterà a 11 mila, che dovranno riferire anche della sostenibilità della filiera. Dunque il numero sarà molto maggiore”. Non ultimo, c’è il consumatore, che ormai ha assimilato i principi, tanto che il 73% chiede che le aziende siano sostenibili. Lo standard è rigoroso e impegnativo (difficile il paragone con la certificazione internazionale B Corp, che però non è specifica per l’agroalimentare) ma ci sono margini di flessibilità. “Non tutti i requisiti dovranno essere adempiuti il primo anno e non tutti saranno obbligatori -ha chiarito Sandra Furlan, responsabile ricerca e sviluppo Valoritalia-. Ce ne sono alcuni non applicabili, per esempio alle pmi, altri che possono esser raggiunti in tre anni. La durata della certificazione è triennale. Su richiesta dell’azienda l’organismo di certificazione può svolgere un pre-audit per analizzare i punti critici e a favore”.
Le imprese in fase di test
Già da quest’anno ci saranno alcune aziende certificate EquiPlanet: una decina quelle pilota che sono in fase di test. Tra queste Auricchio, Rigoni di Asiago e Molino Petra. Molto positivi i primi feedback. “Ci ha già portato del valore, con una fotografia statica delle azioni intraprese, e quelle future (il nostro primo report di sostenibilità sarà il prossimo
anno), tracciare una vera pianificazione di sostenibilità -ha raccontato Guglielmo Auricchio, export Manager/Csr presso Gennaro Auricchio e presidente Giovani Imprenditori di Federalimentare-. Molto è stato fatto sul risparmio idrico, ma molto c’è da fare, per esempio, sulla ricerca nel packaging, tema complesso. Per Auricchio è prioritario garantire le qualità organolettiche al consumatore e la plastica è al momento l’unico materiale che le garantisce”. “Ė anche un perfetto percorso di avvicinamento alla nuova normativa sulla reportistica ambientale che è onerosa e complessa -ha sottolineato Beniamino Perobelli, sustainability e Csr manager di Rigoni di
Asiago-. Non si può arrivare impreparati al 2025. Il nostro obiettivo non è adeguarci alle normative ma essere un’azienda che guarda avanti”. “Siamo stati colpiti dall’approccio olistico -ha riflettuto Piero Gabrieli direttore marketing di Molino Pietra-. Siamo azienda di famiglia. Nel 2006 abbiamo reintrodotto la macinazione a pietra del grano che si era andata persa, ma in un piano industriale attento alla sicurezza per dare maggiore contenuto di fibre. Negli ultimi anni stiamo lavorando molto per introdurre la tecnica di coltivazione rigenerativa per usare meno chimica. Sulla fase produttiva abbiamo molto da fare sulla gestione dell’energia, abbiamo già in cantiere un progetto che punta a maggior energia rinnovabile e ottimizzazione dei processi per ridurre i consumi”.
Italia apripista
È vero che questo standard vuole essere globale e non coprire solo il lato ambientale. Ma non sfugge che recentemente l’Ue sia intervenuta con la direttiva sul greenwashing (Green Claims Directive) per disciplinare i marchi ambientali (attuali e futuri, pubblici e privati) a causa della balcanizzazione che aveva condotto a 230 marchi, quanti ne aveva rilevati la Commissione, generando confusione. Una mossa per mettere un freno alla scorciatoia di darsi una veste green, senza che le dichiarazioni siano suffragate da numeri. Tanto che uno studio della Commissione del 2020 aveva rilevato che il 53,3% delle asserzioni ambientali esaminate nell'Ue erano vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% era del tutto infondato. “Sarebbe bello se le istituzioni dessero un patrocinio o adottassero questo standard basato su parametri scientifici portandolo in Europa, non solo per difenderci ma per cominciare anche a essere propositivi", ha rilevato Paolo Mascarino, presidente Federalimentare, intervenendo dal pubblico. “Se non c’è uno standard
comune, meglio dettare la linea anziché subirla: se partiamo prima, siamo noi che tentiamo di dettare le condizioni -ha affermato Giuseppe Blasi, capo dipartimento Masaf, a chiusura della presentazione-. Lo abbiamo fatto sul benessere animale dove ci dicevano di stare fermi perché stava uscendo un regolamento comunitario (devastante), che poi si è bloccato. Noi siamo andati avanti e partiremo quest’anno”.