L’epidemia di Covid-19 ha fatto irruzione nel nostro Paese in maniera del tutto imprevedibile e ha richiesto un’immediata reazione da parte delle imprese in ottica di Crisis Management. Si potrebbe pensare che, da un punto di vista economico, in apparenza, il settore agro-alimentare potrebbe non aver subito gravi perdite. Infatti, da un lato, secondo la Coldiretti hanno continuato a lavorare durante il lockdown 740mila aziende agricole, 70mila industrie alimentari e 230mila punti vendita in Italia, tra ipermercati (911) supermercati (21.101), discount alimentari (1.716), minimercati (70.081) e altri negozi (138.000) occupando circa 3 milioni di lavoratori. L’aumento dei consumi alimentari tra le mura domestiche ha provocato una grande crescita delle vendite al dettaglio di prodotti agroalimentari confezionati (+18% nel periodo di lockdown rispetto allo stesso periodo del 2019), un boom del fatturato degli esercizi di prossimità e supermercati (ma si è vista una contrazione degli ipermercati di oltre il 9%). Dall’altro lato però, le chiusure del comparto Ho.Re.Ca., l’azzeramento dei flussi turistici e alcune limitazioni al commercio estero hanno pesato in maniera negativa sulle filiere che dipendono direttamente da questi settori. In particolare, il lungo periodo di chiusura ha messo a dura prova molte aziende del made in Italy che producono vino, birra, salumi e formaggi di qualità e che hanno risentito delle difficoltà di esportazione in paesi con misure di chiusura simili al nostro. Accanto a questo, occorre ricordare le complessità logistiche e produttive, e la mancanza di lavoratori stagionali che hanno inciso sul funzionamento delle filiere e sulle difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime, con anche un conseguente aumento degli sprechi alimentari in fase agricola e di post-raccolto. Così come non vanno dimenticate l’erosione di fiducia e l’elevata incertezza sia da parte dei lavoratori che dei consumatori che andrebbero analizzate con attenzione da un punto di vista organizzativo e di marketing.
Una delle prime ricerche svolte in Italia, promossa dalla Unione Italiana Food e condotta con i colleghi Carlo Alberto Pratesi e Giovanni Mattia (Università Roma Tre) ha avuto l’obiettivo di rilevare gli effetti dell'emergenza Covid-19 nei diversi ambiti aziendali (produttivo, logistico, finanziario, organizzativo e di marketing) dell’industria alimentare in Italia durante la fase di crisi, e gli atteggiamenti delle imprese nel post-crisi e sulla possibilità di ripresa. I risultati dello studio, che ha coinvolto 113 imprese del settore, confermano i timori in merito a questa pandemia perniciosa e imprevedibile che si è abbattuta sul nostro Paese. Per due terzi delle aziende intervistate l’impatto complessivo della crisi sanitaria è elevato (addirittura il calo del fatturato è superiore al - 20% per quasi un’azienda su 4). Malgrado questi dati piuttosto allarmanti, dall’indagine si registra che la reazione degli imprenditori e di tutte le risorse umane coinvolte è stata immediata e molto responsabile. Prova ne è che quasi il 50% di tutte le aziende intervistate, nonostante le gravi difficoltà, non segnala alcun fenomeno di assenteismo tra i propri dipendenti. Valutando la situazione attuale e quella futura, in tema di rischi e opportunità, gli atteggiamenti che emergono da parte delle aziende agroalimentari possono essere sintetizzati in tre gruppi: gli innovatori (il più numeroso), rappresentato dalle aziende che, con diverso grado di ottimismo, sanno che per ripartire dovranno investire su innovazioni di prodotto e di processo; i resilienti “smart” che al momento non lamentano danni gravi, ma sono abbastanza certi che il cambiamento sarà duraturo e puntano principalmente a una organizzazione agile del lavoro; gli “attendisti” che lamentano danni notevoli, sono tuttavia abbastanza ottimisti sul fatto che la crisi prima o poi verrà superata, ma non hanno ancora deciso come muoversi.
Per tutti, la preoccupazione di oggi è soprattutto sul lato finanziario, ma in prospettiva prevedono che l’attenzione andrà riposta soprattutto nel marketing e nella gestione dei mercati esteri. Quasi la metà degli intervistati (48%) si dichiara fiducioso sulla tenuta della reputazione del Made in Italy. Nei prossimi studi sarà interessante fare un follow up alle aziende intervistate, per vedere se con la ripresa delle attività gli atteggiamenti si saranno modificati e in che modo, e se il calo di fatturato e della produzione previsti saranno confermati.
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Ludovica Principato
Ricercatrice in Management e Sostenibilità, Università Roma Tre
Consiglio Direttivo, Società Italiana Management (SIMA)
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