L’export è un modo comune di crescita internazionale delle imprese. Questa scelta presenta oggi limitazioni evidenti. Le tradizionali teorie sull’internazionalizzazione delle imprese sono nate in un quadro socio-economico specifico, uscito dalla seconda guerra mondiale. Riassumendo in modo estremo, si potevano distinguere da un lato il quadrante Nord America-Europa Occidentale riunito nell’OCSE, dall’altro l’Unione Sovietica e le nazioni collegate costituenti il COMECON. Gli altri paesi, non allineati a questi due schieramenti, si riferivano all’uno o altro sistema economico integrato secondo influenza, più o meno pesantemente esercitata, e convenienza politica, nonché appartenenza culturale.
Siamo partiti da radici lontane per sottolineare come il comportamento delle imprese, quali organizzazioni socio-economiche, non possa prescindere dalle condizioni geopolitiche in cui tali organizzazioni nascono e agiscono. La storia della genesi dell’internazionalizzazione delle imprese è quella della grande impresa americana, che trova spazio nei mercati europei e in quelli condizionati dalla influenza economico-politica degli Stati Uniti.
Le strategie di internazionalizzazione delle imprese, che trovano proprio in quegli anni la loro fondazione teorica, sono perciò il risultato di una storia sviluppatasi in uno specifico ambiente economico: grandi imprese provenienti da un grande mercato che si espandono in mercati minori condizionati politicamente e spesso non lontani culturalmente. Le imprese europee e italiane, di minori dimensioni rispetto alle grandi corporation, seguivano approcci simili cercando un complicato fine tuning.
Eppure la ricerca manageriale non si è posta il problema di fondo, pur evidenziandosi evidenti limiti applicativi per le PMI. Nascevano soluzioni panacea che tentavano di adattare per eccezione e specializzazione le teorie generali nate in altri contesti. Come se alla teoria tolemaica si cercasse di aggiungere un qualche parziale adattamento, evidentemente insufficiente, per giustificare una centralità della terra che diventa insostenibile. Ci voleva una drammatica interruzione di continuità, una catastrofe, come direbbero i fisici.
La catastrofe arrivò nell’autunno dell’89, con il crollo di uno dei due pilastri del sistema mondiale. La caduta del sistema sovietico ha cambiato il quadro di riferimento, non solo per i paesi che vi appartenevano, ha creato altresì un’onda di propagazione che rimette in gioco tutti i ruoli economici precedenti.
Appare evidente come le strategie di internazionalizzazione debbano essere ricostruite di fronte a un sistema economico, sociale e culturale mondiale del tutto rinnovato. I mercati interni europei non riescono a rappresentare quella riserva di sbocchi sicuri per le imprese del continente, che devono pensare alle nuove economie che nel frattempo hanno assunto importanza crescente, la Russia, L’India, il Brasile, la Cina e non solo. Questa volta le imprese europee internazionali di media dimensione devono affrontare grandissimi mercati ancora in via di formazione, con culture di consumo molto lontane, strutture sociali diverse, velocità di cambiamento elevate rispetto a quanto abitualmente accade nei mercati tradizionali. I paradossi da risolvere sono quelli rappresentati da piccole imprese in grandi mercati, da prodotti sofisticati in mercati ineducati a comprenderli, da strategie di replicazione di modelli di business verso mercati del tutto diversi da quelli di origine.
Non basta più esportare, ripetendo in mercati esteri di quanto fatto in mercati domestici, ma occorre acquisire internazionalità, cioè capacità di leggere il diverso, comprenderlo, e rinnovare le strategie aziendali. Se l’internazionalità è fondata sulla capacità di apprendere, innovare, diffondere, l’export è fondato su un’idea del mondo etnocentrica, un mondo che ha cessato di esistere.