Una donna che di sfide ne ha raccolte tante, sia a livello lavorativo, sia a livello personale. Alessandra De Gaetano, è una delle massime esperte retail di ristorazione commerciale, lo è da quando la ristorazione sembrava un mondo a se stante, diviso tra pochi brand internazionali e una miriade di piccoli esercizi. Oggi Alessandra è global retail director di illycaffè.
Come sei arrivata a fare questo lavoro?
Casualmente. Avevo studiato per fare l’economista, poi, dopo poco meno di un anno di carriera accademica, ho capito che il sistema di valori dell’accademia e i miei non erano proprio collimanti: volevo sposarmi, avere un lavoro retribuito, cosa che in università in Italia non è frequente, quindi ho optato per il mercato del lavoro. Era un buon momento, ho abbracciato il marketing perché era la disciplina più simile a quella che avevo studiato, ho avuto delle offerte praticamente subito e la scelta è caduta su Autogrill. Allora era un’azienda Sme, quindi parastatale, ma tutto il management era Unilever, erano gli inizi del marketing dei servizi in Italia e anche all’estero non era particolarmente sviluppato. La mia è stata una carriera monoaziendale ma multifunzione: ho iniziato con il marketing, sviluppo, poi ho fatto tante operations, che erano una necessità per poter fare carriera, poi l’internazionalizzazione, sono cresciuta con l’azienda, passando per il corporate internazionale fino poi ad arrivare a prendere responsabilità di business in Italia, prima nei centri commerciali, poi in città. Poi arrivò la privatizzazione, l’azienda divenne molto finanziarizzata, l’approccio industriale meno rilevante; insieme a questo, cominciò una internazionalizzazione spinta.
Anche come Sme avevamo acquisito delle aziende in Francia e Spagna, ma il boccone più grosso arrivò con HMS, in America, un’azienda più grande di noi, con una identità ferrea perché era la componente della branch di ristorazione di Marriott, quindi un sistema molto autoreferenziale. Lo scorporo e la conseguente acquisizione da parte di un gruppo italiano fu uno shock per i colleghi americani ... Cominciammo così a gestire questo portafoglio brand molto ricco e che vedeva ruoli differenti per brand differenti: avevamo brand interni che avevano una forte vocazione di redditività, brand esterni ma sovranazionali che dovevano invece rispondere più a una logica di forza nelle gare, brand locali che dovevano schiacciare l’occhiolino ai landlord più piccoli, in sintesi una gestione molto complessa di portafoglio di brand, sulla quale mi sono divertita molto, e dove ho sviluppato anche nuovi concept. Poi sono arrivate le responsabilità più grandi, con la direzione generale in Spagna per tre anni.
Con il 2010, tornai in Italia come Coo, in un momento molto difficile, quello della crisi. Furono quattro anni veramente complicati, al termine dei quali tornai al corporate; finalmente le cose si muovevano di nuovo, avevamo un bellissimo progetto di sviluppo concetti, forte della mia esperienza e della credibilità sviluppata in ambito International, ho preso questa responsabilità fino a quando poi mi hanno riproposto ancora la Spagna e a questo punto sono passata a illycaffè.
Dal tuo punto di vista come si dovrà sviluppare la ristorazione commerciale?
Non possiamo mangiare ogni 5 minuti, però mangiamo tanto, per fortuna, e questa è una delle cose che più difficilmente si compra su Internet. Lo spazio per la ristorazione c’è. Io sono nata nella ristorazione in Italia quando era molto provinciale, in ritardo rispetto all’estero, marketing e branding non erano contemplati: era più cucina e meno concetto. Poi è arrivata la crisi. Era cambiato il consumatore, I marchi esteri cominciavano a consolidarsi. La risposta è stata il fenomeno, tutto italiano, guidato da Slow Food: l’Italia nella sua atipicità ha trovano un modello di innovazione e di sviluppo diverso dagli altri. È ritornata ai valori tradizionali ed è riuscita a tradurli in un’offerta assolutamente unica, su questa traccia è nato Eataly ma anche tantissimi ristoratori hanno cominciato a costruire concetto e catena,con questi valori. La vera rivoluzione è passata da lì. È stato un fenomeno tutto nostro.
Parliamo di illycaffè ... qualche anticipazione?
Illy è un’azienda che ha una tradizione immensa, è nata nel 1933 dal prodotto caffè e da un’innovazione molto forte di sistema, quindi ha nel dna prodotto, innovazione e sostenibilità della coltivazione del caffè. Questa autenticità abbinata a un brand molto forte rende illy un brand unico, la sfida è quella di tradurre questo mondo, molto solido ma molto a monte, in una pari qualità all’interno del retail, dove non hai un laboratorio e una fabbrica e non puoi tenere sotto controllo tutto l’aspetto produttivo. Nel food&beverage invece hai la produzione in ogni punto di vendita, quindi c’è una costruzione di concept che va al di là del mero mondo caffè e che deve essere coerente con i valori illy, con la “Illytudine”.
Dopo un anno di analisi, nel 2020 lanceremo sul mercato un nuovo concetto partendo dall’Europa, abbiamo un paio di idee su quale città, Milano è in pole position.
Illy ha già quasi 300 punti di vendita nel mondo e in una quarantina di paesi, non si parla, quindi, di partire da zero ma di rilancio e riposizionamento, cosa che, all’interno di un mondo industriale del caffè, non è ancora riuscita a nessuno. Starbucks è un retailer, per esempio, Costa Coffe anche, altri hanno la componente industriale ma non si spingono fino ad avere una branch importante di retail, sarebbe un esercizio unico e devo dire che ho trovato solo da illy le condizioni per poterlo fare.
Che ruolo avrà la ristorazione?
La ristorazione sarà un complemento. Il caffè è il focus, ma intorno ci sarà la voglia di condividere dei momenti, uno spazio, degli stimoli di alta qualità nell’ambito sia del good, cioè della bontà dei prodotti, sia del goodness, cioè la parte di sostenibilità allargata, sia del beauty, che sono le tre componenti chiave del brand illy.
Un consiglio alle donne che vogliono lavorare in quest’ambito?
Questo è un lavoro che non si può fare se non ce l’hai dentro. Devi superare tante barriere, tante difficoltà e tanto sacrificio, sia in termini di tempo, di energia, di compromessi con l’ambito famigliare e personale. È necessario sapere bene subito fino a dove si vuole arrivare e quanto si vuole spendere di sé stessi entro l’ambito lavorativo.
Sulle differenze di genere: non mi sono mai sentita, mai, di fare un lavoro da uomo, io stavo facendo un lavoro che mi piaceva, che volevo fare, avevo degli obiettivi, sì poi c’erano degli uomini, molti più uomini, quindi un ambiente che non mi era congeniale e che ho imparato a conoscere. Il mondo maschile, o comunque il mondo del lavoro, non mi isolava ma io dovevo fare un grosso sforzo, superiore a quello di un uomo, nell’entrare in sintonia.
Non mi sono mai sentita discriminata, però ho speso più energie di un uomo per stare bene in questo mondo. Questo a un certo punto della mia carriera mi è pesato.
È ancora così?
Credo di aver passato la barriera del suono, è stato così fino a una certa età, adesso mi risulta tutto più naturale. Mia figlia, la più grande, ha un approccio diverso, si sente assolutamente pari ai suoi compagni di sesso maschile e non vede le differenze.
Le differenze ci sono, imparerà a conoscerle nel tempo, anche se ce ne sono sempre meno.
Credo che il mondo stia cambiando. Per quanto riguarda l’Italia, mi sembra che le aziende siano più avanti della società, potrebbe addirittura essere che l’evoluzione possa passare dalle aziende prima ancora che dalla famiglia.
Ci sono più vincoli e stereotipi nel mondo famigliare, nella società che in azienda: le aziende profittevoli e di successo devono basarsi su una effettiva competenza e capacità di contribuire all’obiettivo comune, che non ha sesso e non ha età, e questo sta aiutando la parità molto più che gli ideali. Mi sembra che funzioni anche meglio delle quote rosa, che in certi momenti sono stampelle necessarie.
La vera evoluzione sarà una reale meritocrazia.