“Le faremo sapere” è una risposta ricorrente a conclusione di un colloquio di lavoro o di stage.E poi non si sa più nulla. Neppure una breve risposta per dire che hanno selezionato un’altra/o candidata/o. E così chi ha mandato il curriculum o ha sostenuto un colloquio di lavoro aspetta, sperando in una risposta con non arriverà mai.
Eppure sarebbe così utile per qualsiasi candidato ricevere un commento e, perché no, qualche suggerimento da parte dei selezionatori.
Si tratta, come minimo, di una pessima abitudine, purtroppo sempre più in voga, che va contro le più elementari regole della gestione d’impresa, per non dire della buona educazione.
Non da oggi si sostiene che la capacità di gestire positivamente le relazioni con i collaboratori e con i dipendenti rappresenta una delle dimensioni qualificanti le imprese di successo. Saper gestire le relazioni interne all’impresa consente, infatti, l’attivazione di quelle risorse intangibili (in particolare di conoscenza) che, congiuntamente alle risorse di fiducia, costituiscono uno dei pilastri su cui si fonda il vantaggio competitivo il successo di qualsiasi organizzazione e, quindi, delle imprese.
Se poi si riflette sugli effetti che questi comportamenti provocano sui candidati, non possiamo non notare che essi generano un senso di frustrazione e di inadeguatezza, ingigantito dall’ansia dell’attesa e dall’incertezza. Quanti ragazzi e ragazze una volta terminati gli studi universitari si “affidano” alle imprese inviando il loro curriculum? E quanti di essi ricevono una adeguata attenzione? Pochi, in realtà.
Per converso nelle direzioni delle Risorse umane (ma anche nelle direzioni funzionali che hanno offerto uno stage) si radicano cattive abitudini come se si potessero appropriare del diritto di mal-trattare impunemente le persone.
Allora non possono non sorgere spontanee alcune domande: ma per qual motivo le imprese (alcune, ma non poche) maltrattano le potenziali “nuove” competenze? E’ forse una logica intelligente quella che fa assumere (si fa per dire) in stage un laureato, lo si tiene in impresa per sei mesi, le o gli si insegna qualcosa e, quando questa/o giovane potrebbe iniziare a svolgere qualche mansione, la/o si manda via, se ne assume un altro in stage e si ricomincia tutto da capo?
Così facendo non si costruisce nulla, non si sedimenta, non si cresce e non si progredisce. Così facendo non si fa impresa. Così facendo si spreca. Si sprecano risorse e opportunità.
La risposta non è nella crisi o, almeno, è solo in parte nella crisi, perché certi comportamenti si riscontrano anche nelle imprese che, nonostante la crisi, sono floride e crescono.
La risposta più vera è nella mancanza di una vera cultura d’impresa che, in realtà, dovrebbe essere incentrata sulle risorse, sulle competenze e sul rispetto della loro crescita. La risposta è, probabilmente, nell’eccessivo e dannoso ricorso alle valutazioni di breve periodo, all’enfasi posta sui risultati finanziari, all’attenzione alle trimestrali e alle semestrali. Mentre sarebbe ben più proficuo che l’attenzione delle imprese e dei manager si concentrasse su ben altri fattori e valori.
Con tutti i danni che queste brutte abitudini hanno prodotto, anche sulla buona educazione.
Sarebbe bello, allora, che le imprese riguadagnassero lo stile perduto e che certi comportamenti censurabili venissero pubblicamente stigmatizzati.
Perché, ad esempio, nei vari siti dedicati all’incontro tra domanda e offerta di lavoro non viene aperta una pagina di commenti sulle esperienze negative e positive dei candidati stagisti? Così le imprese che trattano con sufficienza e/o con disprezzo i candidati vedrebbero messa in pericolo la loro reputazione e, alla lunga, diventerebbero meno desiderabili per i candidati e, conseguenza naturale, vedrebbero diminuire in quantità e qualità i curricula che ricevono.
La prossima volta, allora, rispondetegli, per cortesia. Conviene anche a voi.