Le contraddizioni del decreto del “fare”

Esperti – La legge 98/2013, conversione del “decreto del fare”, contiene due brevi ma significative disposizioni che interessano la distribuzione

La legge 98/2013, conversione del “decreto del fare”, contiene due brevi ma significative disposizioni che interessano la distribuzione e che da un lato denotano lo stato di incertezza che caratterizza l'orientamento e la pratica istituzionale in materia di liberalizzazioni e concorrenza; dall'altro evidenziano che lo spirito corporativo di alcune categorie è ancora in piena salute.
Vediamo i dettagli. Come noto il decreto 201 del 6 dicembre 2011, convertito nella legge 214 del 29 dicembre 2011, conteneva all'articolo 31,comma 2, il principio di liberalizzazione insediativa delle attività commerciali, secondo il quale “...costituisce principio generale dell'ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012”.

Restrizioni solo per esigenze pubbliche

Il legislatore ha aggiunto un breve periodo, nel quale si afferma che “....potendo (le Regioni e i Comuni) prevedere al riguardo, senza discriminazioni fra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali...”.
Perché è stata fatta questa precisazione, quando il testo vigente era già molto esplicito, ammettendo tale facoltà (da parte dei Comuni o delle Regioni) solo in caso di vincoli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell'ambiente, ivi incluso l'ambiente urbano, e dei beni culturali?
Perché rimarcare, con fraseologia un po' ambigua, una possibilità programmatoria già espressa in modo così preciso? L'Antitrust, nella sua nota AS1098 dell'11 dicembre 2013, pubblicata nel proprio Bollettino n. 51 del 16 dicembre 2013, fornisce una chiarificazione: “... al fine di evitare indebite limitazioni alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, l'Autorità sottolinea che Regioni ed Enti Locali potranno introdurre restrizioni per quanto riguarda le aree di insediamento di attività produttive o commerciali, solo dove esse risultino giustificate dal perseguimento di un interesse pubblico, specificatamente individuato, costituzionalmente rilevante e compatibile con l'ordinamento comunitario, e a condizione che ciò avvenga nel rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione...”.
Considerando le funzioni dell'Antitrust la questione parrebbe risolta, salvo magari qualche risoluzione ministeriale...
Se da un lato si restringe, dall'altro si allarga. Nella stessa legge, al successivo articolo 30 bis, vengono pubblicate disposizioni per la vendita al dettaglio dei propri prodotti da parte delle aziende agricole. In particolare all'articolo 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001 n. 228 viene aggiunto un comma 8-ter secondo il quale: “....l'attività di vendita diretta dei prodotti agricoli non comporta cambio di destinazione d'uso dei locali dei locali ove si svolge la vendita e può esercitarsi su tutto il territorio comunale a prescindere dalla destinazione urbanistica della zona in cui sono ubicati i locali a ciò destinati...”.

Agricoltori
senza più vincoli

In sostanza i produttori agricoli possono vendere liberamente non solo in mercati, sagre, fiere o altre manifestazioni, ma anche nei locali di qualsiasi tipo e senza bisogno di conformità urbanistica.
Per comprendere la portata della novità introdotta, è necessario tener presente che essere produttori agricoli non richiede grandi livelli organizzativi e aziendali, basta una piccola superficie coltivabile; che la vendita diretta di prodotti agricoli comporta la possibilità di venderne anche altri (food e non alimentari) fino a un massimo di 160.000 euro per le ditte individuali e di 4 milioni di euro per le società. Infine, fuoriuscendo tale attività dalle destinazioni urbanistiche, cadono i limiti dimensionali per la classificazione dei locali di vendita, che possono spingersi fino alla grande struttura.
Fra le conseguenze potrebbe esserci la libertà insediativa totale di grandi strutture di vendita, a prescindere dalle localizzazioni programmate dalla strumentazione urbanistica comunale, alla sola condizione che la titolarità faccia capo a un'impresa agricola.

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