Sull’internazionalizzazione, il Governo si è dato un obiettivo di 50 miliardi di euro per il comparto alimentare. È un target corretto?
All’estero esiste una domanda importante di prodotti italiani. L’eccellenza dei prodotti italiani è ampiamente nota e riconosciuta in quasi tutti i mercati in cui già oggi esportiamo o siamo presenti. Ma storicamente è un’opportunità altamente sottovalorizzata dal nostro Paese. La verità è che l’offerta per una serie di motivi non riesce ad agganciare la domanda.
Come mai?
Perché ci sono oggettive difficoltà e limiti alla nostra capacità di esportare. Una parte dell’accelerazione cui assistiamo ora è legata alla nuova competitività del cambio, ma resta ancora una discrepanza forte fra domanda e offerta. La migliore dimostrazione sta nel fatto che esiste una proposta di prodotto non italiano venduta come prodotto italiano.
Stiamo parlando dell’Italian sounding?
Le dimensioni dell’italian sounding nell’alimentare sono ragguardevoli. È un business realizzato da aziende che spesso non producono dei falsi, ma semplicemente prodotti che si richiamano a uno stile alimentare italiano: non è neppure sempre necessario fare espliciti richiami al Made in Italy. Il più delle volte è sufficiente questa capacità di ispirarsi. Dovremmo guardare a questi competitor con lo stesso spirito con cui gli americani nei primi anni del Dopoguerra hanno guardato alle categorie di prodotto in Italia in cui erano presenti prodotti di chiara ispirazione americana.
Quindi si tratta, in sostanza, di una sfida di sostituzione?
Non solo. Vi è anche la domanda latente che potrebbe essere sollecitata con la conoscenza e il gradimento della qualità dei nostri prodotti. È altamente probabile che in termini di export alimentare l’ordine di grandezza potenziale sia di gran lunga superiore ai 50 miliardi di euro. Credo che siamo nell’ordine delle centinaia e non delle decine di miliardi di sviluppo. Il tema, però, è di riuscire a proporre in maniera moderna e con le tecniche del marketing i nostri prodotti nei mercati stranieri.
La specializzazione italiana è quella di vendere valore aggiunto elevato...
Dobbiamo distinguere fra valore aggiunto e lusso. La tentazione di trincerarsi in segmenti superpremium ad altissimo valore aggiunto è forte, perché sono nicchie che portano gradissime marginalità. Ma sono situazioni a volumi ridotti e estendibili a poche categorie. L’arena competitiva del prodotto italiano senz’altro non è il mass-market, ma il sistema deve ambire alla fascia intermedia per prodotti premium che non siano esclusivi dal punto di vista del posizionamento di prezzo, che non si rivolgano solo a un’elite di consumatori.
Ed è qui che iniziano le difficoltà?
In qualche modo questa fascia va coperta non solo con l’export, serve anche la presenza industriale diretta. È un tipo di offerta che deve soprattutto riuscire a essere una presenza a scaffale continuativa e non più sporadica. L’export alimentare italiano è purtroppo, a oggi, un flusso discontinuo di commercializzazione. Manca una continuità commerciale, logistica e di fornitura per avere un rapporto continuo con i consumatori stranieri sia esso a marchio proprio o anche in co-packing. Occorre essere presenti con venditori e infrastutture (anche solo di completamento della produzione).
Qual è il modello in auge?
Mi passi l’azzardo: pare più “un’esportazione via internet”. Si vende a qualcuno senza sapere cosa succederà dei nostri prodotti una volta inviati: quali prezzi, quali posizionamenti, quali commercializzazioni, quali comunicazioni di supporto. Quello del prezzo è sicuramente un tema importante. Sappiamo che i nostri prodotti più tradizionali spesso sono posizionati a livelli di prezzo molto elevati rispetto alla media della categoria con l’effetto di creare delle nicchie di esclusività da referenza gourmet. È chiaro che in questo modo si definisce una fetta molto piccola di mercato che si può colpire. Spesso l’impresa che esporta non ne è consapevole perché non ha alcuna esperienza di qual è il prezzo della categoria nel Paese in cui sta approdando: non ha modo di esprimere un posizionamento obiettivo, dato che non interloquisce in alcun modo con la catena distributiva.
Ma questo modello appena descritto ha già raggiunto con gli attuali 35 miliardi i suoi limiti di espansione?
Non credo. C’è ancora spazio a disposizione perché esistono ancora mercati vergini: se guardiamo agli Stati Uniti l’esportazione italiana si concentra nelle aree dove è più forte l’emigrazione storica italiana. Sulla costa orientale, a macchia di
leopardo in California. Nel resto dell’America siamo pressocché sconosciuti. Pensiamo al Texas, al fatto che gli importatori non ci arrivano, al fatto che bisogna fare attività di penetrazione e consolidamento. Non a caso in questa direzione stanno andando gli sforzi fatti dal Governo e dall’Ice, di voler riallocare le risorse in maniera da non andare a parlare sempre con gli stessi interlucutori, ma cogliendo quelli con potenzialità di crescita. È un’azione che dà respiro.
C’è Federalimentare che spinge per un ragionamento in ottica di sistema, che porti alla creazione di poli di carattere industriale.
Noi abbiamo 3-4 aziende del mondo food & beverage molto grandi che hanno già fatto grandi investimenti internazionali. Poi c’è la coda lunghissima di aziende che non hanno la massa critica per aprire filiali, anche solo in Europa. Occorre favorire e incentivare la creazione di poli che abbiano una dimensione domestica di alcune centinaia di milioni su cui poi innestare la collaborazione con aziende più piccole. Ci sono complementarietà fra le nostre categorie. Chi distribuisce salumi può distribuire anche formaggi. A noi mancano le teste di ponte: le grandi imprese che siano in grado di interloquire con i grandi retailer locali. Per ottenere una presenza a scaffale continuativa.
La selezione non toglie entusiasmo agli altri?
La selezione la fa il mercato. Io mi riferisco a dove focalizzare gli sforzi per creare dei campioni nazionali. Perché cercare di farlo in categorie che non hanno un potenziale adeguato potrebbe rappresentare un intervento dubbio sul versante della concorrenza interna. Mentre là dove si può sviluppare la crescita internazionale , misure di questo genere garantiscono un effetto traino che porta benefici diffusi. Più che alle ricadute psicologiche io ritengo che il settore abbia necessità di iniziare a fare qualcosa su questo tema.
Ma in ultima analisi, Lei ci crede?
Io resto convinto che l’alimentare italiano possa essere il nuovo settore trainante, come lo è stato, in passato, la moda. La domanda di stile alimentare italiano nel mondo a me sembra che assomigli molto alla domanda di eleganza italiana. Il punto è che nel food devono ancora avviare quelle strategie applicate negli anni 70 per il fashion.
Sta succedendo con il prosecco?
Il discorso va ampliato. Il prosecco sta all’alimentare come le cinture alla moda. L’interesse degli stranieri per le eccellenze italiane non riguarda solo il prosecco.
Il destino è di finire in mani straniere?
Non credo che sia un destino ineluttabile. Ci sono ancora spazi per intraprendere commercializzazioni da protagonisti. Non tutte le partite sono recuperabili, temo. L’olio d’oliva mi sembra ci sia sfuggito di mano. Diversa è la situazione per pasta, pasta fresca, caffè, salumi, formaggi, vino, i segmenti del dolciario... Nel fresco refrigerato, nelle prime 10 società per grandezza nel mondo, quattro sono società di tipo cooperativo: aziende di cui abbiamo l’equivalente in Italia che potrebbero benissimo darsi un respiro internazionale più ampio.
Aziende o consorzi?
No, sto pensando ad aziende. Ognuno deve fare il suo mestiere. I consorzi dovranno recuperare il loro ruolo originale che è quello di tutela più che di indirizzo strategico.
Cambieranno marketing e comunicazione?
Molto spesso siamo autoreferenziali. Il rischio che corriamo è di comunicare marchi di qualità alla stregua di brand d’impresa quando, invece, sono solo degli elementi di garanzia a supporto del brand. Andare all’estero e competere senza marchi d’impresa equivale a farsi massacrare al primo giro. Il linguaggio che noi usiamo per definire la qualità e l’origine è oltretutto un linguaggio italo-centrico, che spesso non viene neppure compreso dal consumatore straniero. Non di rado egli conosce il valore dell’Italia, ma non sa dove collocare l’Italia sulla cartina geografica. E nel nostro linguaggio noi gli parliamo di regioni, di distretti...