La tv maltratta la pubblicità? Ci vuole un nuovo patto a due

Esperti – La pubblicità non viene vista come risorsa sulla quale investire, ma come oggetto sul quale lucrare. (Da MARK UP 197)

1. Maltrattata con arroganza e intelligenza
2. Il conduttore annuncia il break con sufficienza
3. I break hanno sempre più spot, molte volte inconciliabili fra loro

A dire il vero tutti, o quasi, odiano la pubblicità. Innamorati, ne sono solo quelli che la fanno.
Qualcuno  potrà dire: “Loro ci campano, per forza che la amano!”.
Bene, e allora come mai le televisioni generaliste, che grazie agli introiti della pubblicità vivono, o comunque sopravvivono, la prendono con tale vigore a pesci in faccia?
Prima di cercare una risposta, ammesso ne possa esistere una sola, è bene concentrarsi sulla domanda. Le televisioni maltrattano la pubblicità con l'arroganza, ma anche con tutta l'intelligenza della quale sono capaci. E quindi lo fanno spesso in modo furbo e subdolo, al punto che gli stessi addetti ai lavori stentano ad accorgersene. 
Un esempio minimale, ma emblematico.
Capita spesso che un conduttore annunci il break con sufficienza. Altre volte con   malcelato disappunto. Tipico è il tono di voce falsamente deferente: “interruzione sacra e doverosa” sembra voler affermare. Purtroppo il body language - fateci caso - svela a un occhio attento il suo reale pensiero: “male necessario”. 
Quel braccio che il presentatore (o la presentatrice) si lascia pesantemente cadere sul fianco, mentre i suoi occhi già spaziano altrove, dice ai telespettatori: “Andate, la messa è sospesa. Correte pure in  bagno, in cucina o in giro per altri canali. E quando avete fatto, tornate.” Eppure l'efficacia della pubblicità, e non la sua mera programmazione, è un fatto che dovrebbe riguardare anche loro.

Le telepromozioni
Un altro esempio? Osservate la dabbenaggine con cui la maggior parte di quei signori  recitano nelle telepromozioni. Certo, in parecchi si avvalgono dell'incrollabile alibi di essere dei veri cani. Ma - occhio - durante una telepromozione riescono addirittura a peggiorarsi: geniale artificio per prendere le distanze dal prodotto che stanno magnificando. Come a dire: pecunia non olet, ma nemmeno fragrat.
Che si tratti di maleducate licenze dello star system?
No, sono indizi di un atteggiamento molto più generalizzato, e che parte dai piani alti. Dove la pubblicità - da Carosello in poi - non viene vista come risorsa sulla quale investire, ma come oggetto sul quale lucrare.
La tv maltratta la pubblicità rendendola ulteriormente odiosa al pubblico; aggiungendo ai suoi palesi demeriti, che pure esistono e sono immensi, nuove e ulteriori ragioni. Break con sette/otto spot, spesso di qualità discutibile, sono insostenibili a noi che facciamo questo mestiere, come si può sperare che il telespettatore li regga? O che siano efficaci quanto dovrebbero? C'è poi il maltrattamento principe: quello di costruirgli attorno programmi indecorosi. Feste e festini ai quali nessuno mai vorrebbe partecipare, dove le marche sono invitate come ospiti paganti.
Ma tanto la pubblicità è una mucca no? Chissenefrega se ha qualche acciacco. Chissenefrega se il comparto è in crisi, se le aziende sono in difficoltà, se gli investimenti non danno più i ritorni di un tempo. Chissenefrega se gli spot sono di pessima qualità,  se i telespettatori se ne vanno. Dà il latte. E finché dà il latte mungiamola!
E invece questo sarebbe proprio il momento di chiamare a consulto veterinari di alta scuola che prendano a cuore le sorti dell'animale. Che propongano nuove e intense terapie, curandolo come specie da proteggere, non da sfinire a forza di mungiture.
Il break pubblicitario, grasso e untuoso com'è adesso, infarcito in un companatico  altrettanto insalubre, è letale. Lo è per il pubblico, lo è per le aziende e alla fine lo sarà anche per la mucca.

Correre ai ripari
Se la tv generalista riuscisse a rendersi conto che la sua attrattività presso gli investitori rischia di inabissarsi e senza tanti preavvisi, forse correrebbe ai ripari già oggi: rieditando i propri palinsesti, reinventando la propria offerta, abbattendo quell'ecomostro che si chiama break pubblicitario.
Ma anche spingendo verso altri media quegli investitori che oggi, pur sotto la soglia critica sufficiente, si ostinano a spendere i loro soldi  in tv. Introdurrebbe spazi pubblicitari di altissima qualità, a costo elevato e di massimo profilo creativo.
Su simili presupposti potrebbe nascere un nuovo patto tra la televisione (penso in questo caso alla Rai) e aziende investitrici, dove entrambe le parti si impegnano a elevare (e di molto) la qualità media dei loro rispettivi contenuti. E gli spazi tornerebbero così a essere preziosi. In ogni possibile senso.
Una tv migliore, con pubblicità migliore, diventa un luogo più sano. Forse, addirittura un posto nel quale tornare. Non dal quale scappare, come oggi sta diventando, sempre di più.

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