Premessa: non entreremo nel merito delle elezioni americane. A un giorno di distanza dalla vittoria dell’irriverente maschio alfa-Trump sulla più rigorosa secchiona-Hilary, tuttavia, trattare il tema della diversity pare quanto mai attuale.
Il problema della disparità tra uomo e donna sul luogo di lavoro e in ambito istituzionale, tanto per cominciare, esiste. È una faccenda globale e i dati lo confermano. L’ultimo Global Gender Gap Report 2016 posiziona l’Italia 50esima su 144 Paesi per gravità del divario nelle pari opportunità. Un risultato in peggioramento rispetto al 2015.
Ad aggravare il nostro punteggio sono soprattutto le differenze salariali, che se considerate come unico parametro ci vedono precipitare al 127esimo posto. A parità di mansioni la percentuale di divario tra stipendi è superiore al 10%. Un altro problema, poi, è la mancanza di management al femminile, che vede le donne faticare nel raggiungimento di posizioni apicali.
Come spiega Simonetta Candela, legale partner di Clifford Chance:
Il problema è che la donna viene vista come colei che ha sempre l’onere di dover conciliare tutto. Colei che deve essere l’organizzatrice e la custode dell’intera vita familiare-privata e poi una splendida professionista. Questo è un paradigma di per sé sbagliato e inattuabile. Se non lo superiamo, sarà impossibile uscire dal cortocircuito: “assumere una donna mi costa di più e mi rende di meno
A questi numeri ne fanno da contraltare altri, ugualmente significativi a livello meritocratico. Uno su tutti il numero dei laureati italiani, che sono a maggioranza donne (60% circa), in media arrivate al termine degli studi con voti migliori e in un tempo leggermente inferiore. A confermarlo è Anna Zavaritt, responsabile comunicazione e marketing di Valore D, nel corso dell’apposito incontro promosso da Legal Community e moderato dalla giornalista Silvia Pasqualotto.
Valore D è un’associazione di imprese (tra cui Ikea, Luxottica e Vodafone) che sposano la teoria secondo la quale a una crescita della diversity femminile corrisponda una crescita del business.
È l’omogeneità che rappresenta soprattutto uno svantaggio enorme - conferma Leah Dunlop corporate M&A partner di Hogan Lovells - Avere società o gruppi troppo uguali al loro interno è nocivo.
Come insegna infatti la psicologia cognitiva l’essere umano ha un approccio naturalmente conservatore e per semplificare una realtà complessa e non rimettere continuamente in discussione la propria visione del mondo tende ad utilizzare schemi rigidi e precostituiti. Questo all’interno di un’azienda mina la produttività, la creatività, la capacità di adeguarsi ai cambiamenti contestuali.
Un’esperienza come quella che sta portando avanti Google risulta in tal senso particolarmente significativa. Il colosso statunitense ha attuato in tutti i Paesi in cui opera politiche di diversity che partono dalle assunzioni (ad esempio selezionando i giovani in università non solo elitarie) ed arrivano alla promozione di un ambiente di lavoro favorevole e inclusivo.
Uno snodo centrale in questo processo è la capacità di garantire una buona work-life balance alle donne ma anche agli uomini, ai quali vengono ad esempio concessi lunghi periodi di congedo parentale.
Basti pensare che sono stata promossa mentre ero a casa in periodo di maternità e che la stessa cosa è successa a una mia collega - sottolinea Marilù Capparelli, regional business director di Google.
Certo, il tessuto imprenditoriale italiano non è composto in prevalenza da multinazionali come Google, ma da piccole medie imprese che possono solo in parte farsi promotrici di un tale cambiamento. Al di là degli aspetti culturali, dunque, è necessario che le istituzioni e il Governo prendano la situazione in mano con coraggio.
Tanto per cominciare dobbiamo spostare il focus dalla parola conciliazione delle responsabilità (riferita alla donna) alla parola condivisione delle responsabilità (riferita a entrambi i genitori). Basterebbe, come abbiamo già proposto in un disegno di legge, estendere 2 articoli e apportare qualche correttivo al testo unico sulla maternità e paternità. Un esempio? A 5 mesi di maternità obbligatoria non può corrispondere una paternità opzionale - ribadisce la legale Candela.
“È importante non tanto guardare a macro-sistemi globali, quanto analizzare e mappare la propria situazione intervenendo come azienda con soluzioni territoriali, pensate per migliorare il contesto lavorativo. È quello che abbiamo fatto noi, cominciando da un questionario”, dichiara Emanuela Crippa, head of capital markets legal a Milano per Credit Agricole.
- Le radici profonde del problema, ovvero di una lettura uomo-donna
“Il punto non è certo quello dei tacchi alti sul lavoro o della minigonna. La situazione è molto più complessa, perché tocca le radici di come tutto il mondo o quasi ha sistematizzato la dimensione istituzionale e politica. Abbiamo scelto la dicotomia più facile, quella maschio-femmina, per assegnare ruoli, dividere spazi e tempi, distribuire il potere e l’ordine sociale. Une esempio storico? Assemblea, mercato e spazi aperti: uomini. Chiesa, casa, luoghi chiusi: donne. Sono sistemi assunti quasi senza coscienza che prevedono una prevaricazione maschile. Tutti i riferimenti successivi sono stati descritti come “naturali”. La risposta che si sente ripetere è “così è naturale”. Ma la verità è che “all’uomo è dato per natura di non avere una natura data”, la nostra natura è quella che ci facciamo evolvendo culturalmente”, spiega Grazia Tagliavia professoressa di filosofia della storia all’Università di Palermo.
“Il problema alla base, quindi, è capire che quello che è davvero naturale è la complementarità, l’equilibrio in sintonia con l’altro. O rivoluzioniamo tutto il sistema, o non usciremo mai dalla logica della prevaricazione. O ci mettiamo nell’ottica che quella che va rispettata è la persona umana, nelle sue esigenza e nella sua singolarità, o continueremo in eterno con il paradigma uomo-donna, tale per cui uno chiede e l’altro elargisce”, conclude la Prof.Tagliavia.
- Quando la donna finisce per camuffarsi da uomo
“C’è un fenomeno che io studio che si chiama discriminazione e che si verifica quando l’identità femminile, indipendentemente da competenze e caratteristiche della singola persona, implica il pagamento di un prezzo definito stigma. Conseguentemente, le donne per essere accettate dalla maggioranza al potere si camuffano, allontanandosi dalla propria identità, che non viene ritenuta premiante. Il meccanismo è quello della cosiddetta pressione al conformismo”, spiega Simona Cuomo, professoressa Sda Bocconi e socia fondatrice di BeYouGroup.
“Un problema femminile è poi quello della ricerca del riconoscimento altrui e di una rincorsa al perfezionismo per ottenere approvazione sociale sempre maggiore. Questo ovviamente è uno schema emotivo e identitario impossibile e snervante da mantenere, che porta a un certo punto le donne a dimenticarsi di loro stesse e della relazione con l’altro, perché si focalizzano ossessivamente sulla cosiddetta agenda diventando le prime nemiche di loro stesse”, conclude Cuomo.