Il tema dell'economia circolare è di stretta attualità e lo sarà sempre di più. Le istituzioni a tutti i livelli, stanno muovendo molto per innescare una transizione economica verso modelli sostenibili. In particolare è la produzione di beni in primis, ma anche di servizi, che deve essere rivista. Il retail, uno dei settori maggiormente "esperienziali" è chiamato a conoscere le tematiche legate a questo ambito, sia per implementarne le ricadute sostenibili, ma anche per riuscire a mettere in campo, a vari livelli, uno storytelling che sia servizio al consumatore. In questo ambito gli sviluppi sono continui.
Il Rapporto 2020 sull’Economia Circolare in Italia, a cura del Circular Economy Network in collaborazione con ENEA, mette in luce un ambito a cui viene solitamente dato poco spazio, ovvero quello della bioeconomia. Anzitutto, cosa s’intende per bioeconomia e quali sono i punti di contatto con l’economia circolare. Il concetto di bioeconomia è legato alla teoria economica elaborata dall’economista e matematico rumeno Nicholas Georgescu-Roegen, teorico anche del sistema economico della decrescita. Per bioeconomia s’intende, parafrasando una definizione successiva data dalla Commissione europea, un’economia basata sull’utilizzazione sostenibile di risorse naturali rinnovabili e sulla loro trasformazione in beni e servizi finali o intermedi, come ad esempio utilizzare colture, foreste, pesci, animali e microrganismi per produrre cibo, materiali ed energia. Da questa definizione si capisce come anche la bioeconomia possa condividere l’assunto alla base dell’economia circolare per cui il rifiuto non è più uno scarto, ma anzi la risorsa di partenza che permette, in ottica di circolarità, di alimentare il cerchio della rigenerazione.
Il discrimine, però, da tenere a mente in relazione alla bioeconomia riguarda il suo utilizzo in presenza di particolari garanzie. Infatti, le attività della bioeconomia si basano su risorse biologiche che devono essere utilizzate in modo sostenibile garantendo la loro rinnovabilità, la resilienza degli ecosistemi e la conservazione degli stock del capitale naturale che le forniscono. Tali garanzie non vengono sempre rispettate e, in tal senso, fare ricorso alla bioeconomia significa indebolire la ricchezza di base del Paese, il suo capitale naturale.
Al contrario, se le attività produttive riconducibili alla bioeconomia vengono praticate in maniera sostenibile, fondandole sulla rigenerazione, questa rappresenta un tassello efficiente dell’economia circolare. In questo caso è possibile pensare alla bioeconomia in maniera vitale. Il rapporto della bioeconomia con il capitale naturale è appunto virtuoso solo se le risorse naturali vengono utilizzate con modalità che favoriscono la loro resilienza, come nel caso in cui per i suoli (il suolo è per eccellenza alla base del capitale naturale su cui si struttura la bioeconomia) venga garantita la loro fertilità, permettendone la rigenerazione, oppure vengano preservate le funzionalità ecologiche dei sistemi marini e costieri. Interessante in questo contesto anche il ruolo del biochar. Quest’ultimo è un carbone vegetale, ottenuto attraverso un processo di pirolisi della biomassa, che viene impiegato come ammendante, ovvero come sostanza per modificare o migliorare le caratteristiche nei suoli, perché migliora la struttura del terreno e le sue proprietà meccaniche. Grazie alla sua struttura compatta, il biochar non viene degradato dai microrganismi del suolo e quindi permette di stoccare carbonio invece che farlo tornare all’atmosfera sotto forma di CO2. Qui, s'intravede un’opportunità anche in termini di emissioni di gas serra, in quanto lo sviluppo della bioeconomia può contribuire in quella che è l’obiettivo alla decarbonizzazione (Goal di punta anche del Green Deal europeo). Infatti, può contribuire a tagliare emissioni, dirette e indirette, anche incrementando la sua capacità di assorbire carbonio organico nei suoli, nelle foreste e nei prodotti biologici di lunga durata.
In Italia, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha promosso una “Strategia italiana per la Bioeconomia”, che si pone come obiettivo al 2030 di conseguire un incremento del 20% delle attività economiche e dei posti di lavoro afferenti alla bioeconomia italiana.
Quello che è chiaro è che tale ambito deve essere armonizzato come strategico nelle due potenti spinte che sono destinate a modificare nei prossimi decenni strategie nazionali, organizzazioni industriali e modelli comportamentali: la lotta ai cambiamenti climatici e l’abbandono degli schemi lineari dell’economia. In questo senso, sottolineare gli aspetti legati alla bioeconomia nel grande macro ambito dell’economia circolare aiuta a dare completezza alle questioni legate alla produzione e al consumo insostenibile. Il concetto di economia circolare è il perno per una transizione epocale, per spezzare il modello lineare basato sulla catena estrazione di risorse-produzione-consumo-scarto (take-make-dispose): la sfida è quella di riuscire sempre più sistematicamente a integrare in ogni processo la circolarità, la rinnovabilità e la condivisione.
In questo contesto, nel white paper presentato da TÜV Italia dal titolo “Economia Circolare – verso un nuovo paradigma produttivo”, si sottolinea come circa l’80% degli impatti ambientali siano conseguenza delle decisioni prese in sede di progettazione. Si ha, quindi, la necessità di ripensare totalmente fin dal principio tutta l’organizzazione produttiva, in ottica di una totale trasformazione del rapporto con l’uso delle risorse naturali, e del ciclo di vita dei materiali e dei prodotti che l’industria realizza; un’opportunità che apre a nuove strade per creare valore e può pure alimentare i profitti delle imprese pronte a imboccare la strada dell’innovazione.
Come individuato da Ecoscienza, a cura dell’Arpae Emilia-Romagna, già qualche tempo fa, i temi prioritari su cui sarebbe opportuno investire, e che ancora non sono all’ordine del giorno, sarebbero:
a) lo sviluppo di modelli di business fondati sull’accesso ai servizi a valore aggiunto: in tutta Europa è in atto uno spostamento delle preferenze dei consumatori verso l’accesso ai servizi, come alternativa al possesso dei beni (disownership). Ciò favorisce l’incremento della produttività degli asset delle aziende e la qualità degli stessi. In questo ambito le tecnologie abilitanti legate all’internet delle cose, alla stampa 3D e alla tracciabilità costituiscono formidabili acceleratori del cambiamento;
b) la produzione di beni durevoli a contenuto tecnologico alto e medio-alto attraverso processi di rifabbricazione (in inglese remanufacturing): questa strategia industriale, consente una elevata remunerazione del lavoro richiesto a professionalità qualificate, oltre che un rilevante risparmio di materia prima;
c) gli incentivi alla commercializzazione e all’acquisto di prodotti progettati e fabbricati per offrire al mercato un elevato valore di rinnovabilità dei materiali, anche attraverso il recupero di materia riciclata post consumer, utilizzata all’interno di “cicli chiusi” e controllati. L’avvento delle smart cities, l’evoluzione delle reti di logistica inversa, le moderne tecnologie di riciclo e il cambiamento culturale nei consumatori possono favorire l’affermazione dei prodotti fabbricati anche grazie all’impiego di materia rinnovabile ottenuta da processi di riciclo post consumer”.
A fronte di tutto ciò, l’UE vuole essere leader di questi processi rivoluzionari, per riconquistare competitività tramite un’innovazione che potrebbe portare crescita economica e aumento dell’occupazione nel rispetto della sostenibilità ambientale, soprattutto ora che la pandemia sta mettendo in ginocchio tutto il continente. L’Italia, da sempre abituata a confrontarsi con la scarsità di materie prime e, al momento, tra le più virtuose in Europa in materia di economia circolare, può ritagliarsi un ruolo di primo piano e ha grandi potenzialità di crescita, se seguirà le sua inclinazioni proprie del “genio italico”, che esce allo scoperto specialmente nei momenti d’emergenza.