Ogni giorno ogni quando accendiamo il nostro cellulare, mandiamo un email, postiamo un video su Facebook, completiamo una ricerca con Google, telefoniamo con Skype, prenotiamo un taxi con l’app, acquistiamo un biglietto per il cinema con il tablet, paghiamo con la carta di credito, stiamo producendo petabytes (1.024 terabytes) di dati riguardanti le nostra attività di lavoro, consumo, svago, gestione delle nostre finanze. Con lo sviluppo del cosiddetto IoT (Internet of Things) la produzione dei dati è destinata ad aumentare esponenzialmente, misurabile in exabytes (1.024 petabytes).
Questa enorme mole produce il fenomeno che viene chiamato Big Data, ad indicare il massiccio volume di informazioni, così grande e soggetto ad un cambiamento di tale velocità che non sono pensabili analisi di tipo tradizionale. Oggi gran parte di questi dati non sono trattati e in molte situazioni le preziose informazioni vengono perse.
La rivista del MIT di Boston e IBM hanno condotto qualche anno addietro una ricerca su 3000 executive in 108 paesi e 30 settori, sulle sfide e opportunità associate con le analisi avanzate sull’enorme quantità di dati di business, resi disponibili dalle nuove tecnologie. I big data, appunto. L’obiettivo era verificare se le imprese con i migliori risultati competitivi fossero anche quelle capaci di utilizzare le informazioni da essi derivanti.
I risultati sono per certi versi inaspettati: le organizzazioni top performing usavano cinque volte di più analisi avanzate dei dati rispetto ai low performer. La stragrande maggioranza degli intervistati riportava che le informazioni disponibili fossero di gran lunga eccedenti le capacità di analisi esistenti e i senior executives auspicavano che i rispettivi business fossero maggiormente condotti sulla base di decisioni data-driven.
Il tema dei big data è divenuto ancora più importante rispetto a qualche tempo fa e oggi la questione di come basare la qualità delle decisioni sui dati disponibili è chiara a tutti.
Le principali business school in tutto il mondo hanno proposto o stanno per offrire programmi brevi o seminari nei corsi MBA e alcune università stanno lanciando interi corsi di laurea o Master destinati a creare specialisti di big data, come la Stern University in USA o la Bocconi in Italia. La sfida è rispondere alla domanda delle imprese, che si prevede sarà di milioni di laureati nei maggiori paesi avanzati entro i prossimi cinque anni, in linea con la diffusione nelle imprese delle figure dei CDO (Chief Data/Digital Officer).
Il problema, non del tutto risolto, è quali competenze saranno necessarie ai futuri manager che dovranno operare in un mondo la cui conoscenza sarà organizzata intorno alle informazioni estratte dai big data. Secondo molti, occorreranno persone capaci di affrontare le analisi dei dati senza timore, quindi con sofisticate capacità analitiche, fondamentalmente dei tecnici dotati anche di capacità manageriali.
Altri, tra cui il sottoscritto, pensano invece che a fianco dei CDO, statistici e scienziati dei computer, saranno poi necessari manager con capacità creative e di visione strategica, che conoscendo a fondo le potenzialità provenienti dalle informazioni, dovranno guidare i processi innovativi derivanti dal potenziale di opportunità che le enormi quantità di dati renderanno possibili.