La percezione che il consumatore ha di una marca deriva da tanti elementi eterogenei, ma diversità e inclusione (D&I) giocano un ruolo sempre più centrale, che incide sia su un legame di lungo termine con il brand, sia sul favorire l'acquisto di impulso. A confermarcelo anche quest'anno sono i risultati della ricerca per il Diversity Brand Index 2021, progetto curato dall'associazione Diversity e Focus Mgmt.
Complici forse nuove riflessioni e la presa di coscienza su discriminazioni e disuguaglianze spinta dalla pandemia, rispetto al 2019, nel 2020 la sensibilità degli italiani sul tema cresce: la maggioranza delle persone (55,5%) è altamente attenta e attiva sulle tematiche della diversity, con il 34,5% di coinvolte/i e il 21% di impegnate/i. Scompare il segmento dei cosiddetti arrabbiatissimi, mentre quello degli arrabbiati/e che non vivono positivamente queste tematiche passa dal 25,4% dell’anno scorso al 12,4%. Sembrerebbe quindi che anche i cosiddetti "haters" facciano talora molto rumore online, ma con una bassa rappresentanza nei fatti. Resta, nel complesso, un 88% di italiani che predilige marche inclusive, ragione in più per scegliere azioni e comunicazioni di marca concretamente schierate sul fronte D&I, possibilmente evitando retorica e riferimenti già obsoleti (ma questo è un altro articolo).
"L'emergenza sanitaria ha causato un allontanamento fra alcuni target e i brand, portando entrambe le parti a una sorta di visione a corto raggio, che paradossalmente aumenta l’interesse verso l’inclusione. Dalla ricerca per il Diversity Brand Index infatti emerge un nuovo cluster di persone, prima disinteressate al tema, che oggi invece dimostrano interesse quando il tema dell’inclusione tocca la loro cerchia di conoscenti e il loro nucleo familiare", sottolinea Francesca Vecchioni, Presidente di Diversity.
Da notare, tuttavia, che il numero di brand citati dal campione dell'indagine come inclusivi risulta più basso rispetto al 2019 (388 contro 482). Un dato che evidenzia come il tema della D&I abbia sofferto, in quanto a investimenti ed impegno, la crisi da Covid, con impatto diretto. Eppure, la diversity paga: i marchi percepiti infatti come non inclusivi registrano un nps (net promoter score, indicatore del passaparola) negativo pari al -90,9% (con un’ulteriore riduzione di 4,9 punti percentuali rispetto all’anno precedente), a fronte di un +81,2% invece per i brand percepiti come inclusivi. Questo si ripercuote direttamente sul differenziale della crescita dei ricavi: +23% a favore di quei brand che, nonostante l'emergenza globale, sono riusciti a non interrompere il loro piano di sviluppo e il loro impegno sulla D&I.
Come evidenzia Emanuele Acconciamessa, Coo di Focus Mgmt: "Alcune aziende, soprattutto nei settori ad alto tasso fisico che non hanno saputo reinventare la relazione con la clientela, hanno perso un’occasione, investendo nella comunicazione più emergenziale e non sulla brand community, tralasciando alcuni valori, fra cui quello dell’inclusione".
Perdono non a caso terreno nella percezione di D&I degli italiani le aziende legate ai consumer services (-12%) e ai beni di largo consumo (-10%), mentre il retail perde solo 2 punti e si conferma comunque il settore più presente (20%). Premiati, invece, i comparti dell’information technology (+8%), apparel & luxury goods (+10%) e healthcare & wellbeing (+8%). Passando ai nomi concreti, i brand che compongono la rosa dei 20 marchi selezionati nel 2020 dal Diversity Brand Index per posizionamento e attività di d&I sono: Amazon, Carrefour, Coca-Cola, Durex, Esselunga, Freeda, Google, H&M, Ikea, Intesa Sanpaolo, L'Oréal, Leroy Merlin, Mattel, MySecretCase, Netflix, Pantene, Rai, Spotify, Starbucks, Tim, Vodafone.
Premiata in particolare Rai per il progetto digitale Rai Virtual Lis, piattaforma che consente di veicolare messaggi nella Lingua dei Segni Italiana, mediante degli avatar realizzati in computer grafica 3D. Il vincitore assoluto, invece, è Google per "il suo lavoro diffuso di D&I, soprattutto su gender, orientamento sessuale e affettivo e disabilità".
Anche in questo caso, infine, come su tutti i temi caldi dell'attualità (la sostenibilità è l'esempio lampante) si apre la questione del "diversitywashing", dove alcuni brand risultano percepiti come inclusivi pur non essendosi adoperati concretamente sul tema. Il Diversity Brand Index 2021 esclude questi casi con la valutazione di un apposito board, ma in futuro c'è da aspettarsi che, proprio come sul fronte green, la richiesta di autenticità e la capacità critica del target si affinerà a sua volta.
"Oggi vendendo un'affissione o una comunicazione che sventola la diversità i consumatori già si chiedono cosa ci stia dietro e quale sia l'intenzione reale dell'azienda", specifica Martina Fuga, vicepresidente di Pianetadown Onlus, responsabile della comunicazione di CoorDown (Coordinamento Nazionale Associazioni delle persone con sindrome di Down) e rappresentante europea di Gadim (Global Alliance for Disability in Media and Entertainment). Attenzione, dunque: i bari saranno scoperti.