Cominciamo subito con un dato che non ha bisogno di commenti: l’Italia detiene solo l’1.6% dello stock mondiale d’investimenti esteri, contro il 2.8% della Spagna, il 3.1% della Germania, il 4.8% della Francia e il 5.8% del Regno Unito (dati 2014 Censis). Questo è lo stock, e i flussi? Peggio che andar di notte: nel 2013, è sempre il Censis che ci informa, gli investimenti diretti esteri in Italia si sono fermati a 12.4 mld € contro i quasi 30 del 2007, l’ultimo anno ante crisi.
Ma quali sono i canali di afflusso di capitali stranieri? Tra i principali di certo gli investitori istituzionali: da una parte quelli che investono in titoli regolamentati, dall’altra i fondi di private equity che investono su aziende non quotate. In entrambi i casi il piatto piange. Come capita spesso di sentirsi dire da questi investitori, senza mezzi termini com’è loro abitudine, l’Italia, ottava economia mondiale, seconda potenza manifatturiera in Europa e quinta nel mondo, non è Tier1 cioè non è nella prima fascia delle destinazioni d’investimento. Il guaio è che non esistono il Tier2 , 3 e così via: c’è la seria A e poi tutti gli altri.
La differenza non è di poco conto: le destinazioni Tier1 sono considerate strategiche dai grandi investitori istituzionali internazionali, così che nell’ambito della loro “allocation policy” una specifica percentuale del patrimonio gestito va comunque a finire lì; per tutto il resto prevale l’approccio “opportunistico”, al meglio si valuta caso per caso.
Prendiamo l’esempio dei fondi di private equity, dispensatori di capitali di rischio ed indispensabile strumento di fluidificazione del mercato finanziario in un Paese ad economia avanzata. Con poche eccezioni, la maggior parte dei capitali eventualmente destinati all’Italia non arriva direttamente ad operatori italiani, ma affluisce in modo indiscriminato alla sparuta pattuglia dei (soliti noti) grandi investitori pan-europei che, a loro volta, decidono, a loro assoluta discrezione, se e quando destinarne una parte al nostro Paese.
Il punto è che molto spesso le decisioni di questi grandi operatori si basano su una conoscenza del contesto a dir poco superficiale, tale da renderli certamente pronti a caricare a testa bassa ed a sgomitare per un posto in prima fila nel caso in cui Giorgio Armani o Giovanni Ferrero decidessero di aprire il capitale delle proprie aziende, ma che ignora invece pressoché completamente l’enorme potenziale imprenditoriale e industriale del nostro Paese, fatto soprattutto da piccole e medie imprese che raramente ascendono agli onori della cronaca internazionale e sono dunque sostanzialmente fuori dai loro schermi radar. Nei ranghi di questi potenti investitori internazionali solitamente si trovano pochissimi italiani e quei pochi quasi sempre allevati professionalmente a Londra e lì stabilmente insediati, convinti che frequenti incursioni in giornata, aventi come obiettivo quasi esclusivamente di incontrare advisor finanziariamente non servano solo a favorire l’accumulo di miglia sui loro conti di frequent flyer, ma rappresentino la modalità ottimale di analisi del nostro mercato.
Così andando le cose, è fatale che le decisioni d’investimento e di allocazione delle risorse siano basate soprattutto su solidi e profondamente radicati luoghi comuni che, pur attingendo ampiamente alla realtà fattuale, spesso descrivono il nostro Paese molto peggio di come in realtà non sia.
Cosa fare allora? Occorre urgentemente risalire nel Tier1, emergere dal gruppone degli “altri” e riprendersi la posizione che in passato abbiamo avuto e che ci spetta di diritto. Se così accadesse, torneremmo ad essere una presenza fissa e strategica nei portafogli degli investitori internazionali, questi potrebbero finalmente decidere di creare delle strutture fisse in Italia, utilizzando professionalità e competenze locali in grado di pilotare i loro sforzi e i loro capitali, indirizzandoli alle tante e significative opportunità di sviluppo.
Per riuscirci bisogna ovviamente lavorare sodo per eliminare le molteplici criticità che ci affliggono, prime fra tutte la piaga della corruzione e le carenze (scarsa trasparenza ed eccessiva lentezza) della giustizia, ma tutto questo, anche svolto in modo tempestivo e ottimale, potrebbe non bastare: è altrettanto importante avviare in parallelo una sistematica attività di presentazione, illustrazione, promozione del nostro Paese alla business community internazionale, spiegando il buono che c’è già, i risultati ottenuti, i miglioramenti in corso, le prospettive incoraggianti, il piano di riforme, la qualità delle nostre imprese, la grande capacità di fare innovazione, i tanti casi di eccellenza. Occorre far sapere che il Paese rappresenta e rappresenterà nel corso dei prossimi anni un’eccezionale opportunità di creazione di valore, che è riposta all’interno del nostro sistema industriale ed aspetta solo che le si dia la possibilità di emergere e manifestarsi.
Per essere convincente ed efficace, questa attività di comunicazione strutturata deve essere affidata al “promotore” più autorevole possibile, uno che “ci metta la faccia” e che parli con piena cognizione di causa.
All’intuito del lettore di chi si possa, o debba, trattare.