Le imprese italiane sono divise fra la necessità e l’aspirazione a una maggiore creatività per poter essere più innovative e una cultura aziendale che tende a favorire la stupidità funzionale dei propri dipendenti. Di cosa stiamo parlando? Di quell’atteggiamento per il quale viene richiesto alle risorse umane di attenersi a pratiche consolidate e alle direttive dei vertici aziendali anche quando le ritengono migliorabili o addirittura errate, per renderli più efficienti.
Questo quanto emerge dall'HR Trends and Salary Report 2017 realizzato da Randstad Professionals, che fa il punto anche su altre questioni salienti come la carenza di competenze in azienda e la capacità di trattenere i talenti. A seguire i risultati emersi per punti.
1- La stupidità funzionale
Se a livello astratto soltanto il 9% delle direzioni HR ritiene che non soffermarsi in maniera critica sulle attività da svolgere velocizzi i processi e migliori l’efficienza e solo il 14% pensa che in un’azienda il conflitto creativo vada evitato perché porta disordine e scarsa efficacia, quando si analizzano le concrete prassi aziendali il quadro diventa molto più sfumato. Soltanto il 43% delle direzioni HR pensa infatti che la stupidità funzionale porti al fallimento degli obiettivi aziendali, il 36% ritiene che porti al successo, mentre per il restante 21% non porta né all’uno né all’altro.
2- Il conflitto creativo
La situazione migliora quando si parla del conflitto creativo, che il 64% considera uno strumento di lavoro efficace e proficuo sotto ogni punto di vista, solo il 12% ritiene che sia negativo per i risultati aziendali, mentre il 24% mantiene un’opinione neutrale sull’argomento. Tuttavia, soltanto il 31% dei dirigenti HR concretamente considera il conflitto come potenziale strumento di lavoro e contrasta la stupidità funzionale delle prassi aziendali, mentre il 45% ritiene positiva la stupidità funzionale e da evitare il conflitto creativo e il restante 24% vede molti ostacoli di tipo organizzativo e culturale al rinnovamento dei processi aziendali.
Un atteggiamento conservativo che rischia di limitare molto l’innovazione, lo sviluppo del business e la capacità di attrarre i nuovi talenti, che sempre di più cercano un ambiente di lavoro piacevole e stimolante e una cultura aziendale nella quale ci si possa identificare - Marco Ceresa, amministratore delegato di Randstad Italia
3- Come si comportano le direzioni HR
La ricerca suddivide il campione intervistato in tre categorie: i “conservatori”, gli “esploratori” e i “costruttori”. I conservatori (il 45% del campione) sono il segmento più “tradizionalista” all’interno dei dirigenti HR, che assume un atteggiamento difensivo che porta a evitare il conflitto creativo. Gli esploratori (il 31% degli intervistati) sono invece il segmento che più concretamente si adopera per rinnovare i processi aziendali. Infine, i costruttori (il 24% dei dirigenti HR), pur ammettendo che la stupidità funzionale è spesso una richiesta implicita dei team leader che induce i più intelligenti ad adattarsi pur di lavorare, vedono molti ostacoli di natura organizzativa e culturale da superare per attuare il cambiamento necessario. In particolare, affinché il conflitto creativo diventi prassi aziendale servono una cultura aziendale che lo consenta e dei team leader in grado di gestirlo.
4- Le assunzioni
La ricerca rivela un forte aumento nelle assunzioni pianificate per l'anno in corso. L’80% delle aziende ha intenzione di assumere nuovi dipendenti (era il 62% nel 2016), soprattutto per far fronte a una carenza interna di competenze (37%), alla crescita nazionale o internazionale dell’azienda (25%) e alla crescita economica del mercato (22%).
5- La carenza di competenze
Un altro degli aspetti indagati dallo studio è la carenza di competenze, che interessa l’81% delle organizzazioni italiane. Un dato che, pur in calo rispetto al 2016 (quando era pari al 97,9%), rappresenta una vera e propria emergenza per le imprese, relativa sia ai candidati che ai lavoratori già presenti all’interno dell’azienda. Nonostante il forte aumento della propensione all’assunzione nel 2017, infatti, le aziende faticano a trovare candidati idonei: in particolare, i principali ostacoli nel reperimento di nuove figure sono la carenza di competenze professionali specifiche (se ne lamenta il 60%, +10% rispetto al 2016), la mancanza di esperienza lavorativa nel settore (47%, -8% sul 2016) e la scarsa conoscenza delle lingue straniere (35%, -12% sul 2016). Tuttavia, il gap di competenze riguarda anche il personale già in forza all’azienda. Per colmarlo, quasi due organizzazioni su tre (64%) offriranno programmi di istruzione e formazione. Una percentuale molto inferiore si concentrerà sull’aumento di retribuzioni/benefit (14%), o sull’aumento di fornitori esterni (13%).
6- L’attrattività delle imprese
Il 58% delle aziende interpellate pensa che la sfida più grande nel 2017 sarà quella di attrarre talenti per le successive fasi di crescita: per il 56% lo sforzo maggiore dovrà essere destinato a trattenere quelli che già ci sono, mentre per il 53% occorre creare le condizioni adeguate perché possano svilupparsi e migliorarsi. Meno della metà delle organizzazioni (il 45%) ritiene di essere già in grado di attrarre anche i candidati migliori, mentre il 55% vede degli elementi che potrebbero frenare l’interesse dei talenti per la loro realtà. Fra questi collocano al primo posto la mancanza di politiche di employer branding (39%), seguita dall’immagine poco attrattiva dell’azienda (34%) e da retribuzioni e benefit poco interessanti (29%). I principali elementi che invece contribuiscono a rendere desiderabile un posto di lavoro sono le buone opportunità di crescita professionale (66%), la buona cultura aziendale, l’ambiente di lavoro e il clima organizzativo (63%) e il pacchetto retributivo competitivo (37%).
7- Trattenere i talenti
La principale ragione che spinge oggi i dipendenti a rassegnare le dimissioni è una miglior offerta per condizioni economiche (nel 58% dei casi), seguita dalla possibilità di più rapidi avanzamenti di carriera altrove (33%) e dalla scelta di cambiare professione (32%). Per trattenerli, i benefit su cui le aziende sembrano puntare maggiormente sono i bonus (62%), i piani di formazione e accrescimento delle competenze (58%), la mensa aziendale o i ticket restaurant (57%). Se i fattori che inducono a lasciare un posto di lavoro sono per lo più legati al miglioramento individuale, gli incentivi a non cambiare impiego sono invece correlati ad attributi aziendali come la solidità e la reputazione. Fra questi ultimi, infatti, spicca la buona salute finanziaria dell’azienda (nel 55% dei casi), seguita da un’immagine forte del brand (49%) e da posizioni di lavoro interessanti (35%).