Dentro il punto di vendita oggi si offre un’esperienza. Le possibilità sono così evolute e diversificate che è quasi possibile scrivere una sceneggiatura di ciò che può (o che dovrebbe) accadere in funzione di molteplici variabili. In generale queste sono il profilo del consumatore, gli eventi temporali, le zone del punto di vendita e altro. Non solo. I messaggi che si possono veicolare possono puntare a raggiungere il target per rispondere a una sua esigenza esplicitata o prevista a livello probabilistico, oppure delle vere call to action. Quest’ultimo punto risulta oggi di grande interesse.
La definizione di una strategia di marketing instore demandata esclusivamente alle tecnologie (escludendo quindi il field marketing che prevede un operatore), richiede dei punti di partenza (approcci) da cui far discendere l’intera filosofia di progetto. Un approccio possibile è quello di definire degli hot point nelle varie zone dello store (che possono anche essere touch point), attraverso i quali si invoca una call to action verso il consumatore. In altre parole si mette a punto un messaggio atto a far scatenare un’azione da parte dell’avventore. Esperienze empiriche se ne possono trovare, ma tutte ricadono sotto una classificazione di proximity marketing tradizionale. Per esempio, i piccoli schermi posti nelle aree grocery o nei reparti fai da te delle gss e gd che dimostrano il funzionamento di un prodotto o di un tool, puntano a indurre l’acquisto (d’impulso) grazie alla proposta di una soluzione circa un’esigenza prevista (se il consumatore passa da un dato reparto, vi è la probabilità che cerchi in quel contesto una soluzione). La scelta del tipo di risposta che si vuole ottenere può essere molto varia. Si parte dall’instore radio che punta a creare un ambiente sonoro caratterizzante con una diffusione in broadcasting (e che quindi trasferisce in qualche modo una riconoscibilità dell’ambiente), a un proximity marketing che richiede una reazione su uno stimolo ben preciso.
Per implementare una situazione di proximity marketing di tipo call to action si può ricorrere a un approccio prevalentemente sensoriale, oppure interattivo e personalizzato che può in sequenza unire anche l’apporto sensoriale. Quest’ultimo caso è, per esempio, quello che si realizza con i beacon con i quali i consumatori ricevono degli input sul proprio smartphone, che quasi sempre sono call to action ma che hanno delle caratteristiche “di stage” restrittive. Mentre la ricezione di beacon è legata a precise “regioni” della superficie di vendita secondo un corretto approccio di proximity, è necessario che il consumatore abbia un’App in ascolto e che sia disposto a sostenere questo tipo di interazione. Inoltre il beacon non ha in prima istanza un tipo di coinvolgimento sensoriale in quanto sviluppa un’azione nello smartphone (anche se successivamente può instradare il processo interattivo in altre modalità). In linea di massima, i recenti progetti di proximity marketing cercano in prevalenza un coinvolgimento puntuale del consumatore che sfrutti al meglio lo stimolo sensoriale (prevalentemente di tipo visivo allo stato attuale) e che sappia veicolare un messaggio in modo immediato. Le ricerche dimostrano che questo approccio è il più efficace per scatenare una call to action, qualunque debba essere.
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