I manager del marketing e delle vendite sono per definizione fortemente orientati a migliorare i risultati commerciali della loro azione, ad incrementare il fatturato dei loro brand, sovente dimenticando la necessità di contemperare, nella loro strategia di mercato, l’ottica di breve termine con quella di medio-lungo termine.
Tuttavia, in alcune condizioni di mercato, quando la domanda è eccessiva o indesiderata, diventa necessario agire per ottenere una sua contrazione, allo scopo di evitare l’insoddisfazione del cliente e di non danneggiare l’immagine e la reputazione del brand. A questo scopo, soccorrono i principi del “demarketing”, proposti da Kotler e Levy già nel 1971.
I campi di applicazione e le modalità di attuazione di questa strategia si sono evoluti nel tempo. Oggi si parla di demarketing anche in un’ottica d’interesse pubblico, con riferimento a prodotti dannosi per la salute (tabacco, alcool, junk food, bevande gassate), che possono causare un danno ambientale (energia, materie prime, packaging), che sono scarsi (consumo dell’acqua), o riguardo ai prodotti contraffatti (abbigliamento, food) o utilizzati illegalmente (software, musica). Inoltre, il demarketing può essere applicato anche ai prodotti culturali, come un museo, e alle destinazioni turistiche, come una città.
Quest’ultima fattispecie viene prepotentemente alla ribalta in questi ultimi anni. Con la globalizzazione, la riduzione del costo dei trasporti, la crescita delle economie emergenti e dei Paesi BRICS, i flussi turistici internazionali crescono a ritmo sostenuto: secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale del Turismo, nel 2014 gli arrivi registrano un ulteriore incremento del 4,4%, toccando quota 1.135 miliardi; oltre il 51% di questi riguarda l’Europa, che si qualifica come il continente più visitato del mondo. Tali flussi tendono a concentrarsi, andando a privilegiare le destinazioni più attraenti e determinati periodi dell’anno, ed esprimendo in molti casi un eccesso di domanda, la quale diventa insostenibile.
Il caso di Barcellona è emblematico. La città, a partire dalle Olimpiadi del 1992, ha progressivamente acquisito un’alta attrattività sotto un profilo turistico, come luogo “cool”, culturalmente all’avanguardia, con un'architettura sorprendente, cibo e clima eccellente, un’ atmosfera elegante e vitale. I flussi turistici sono cresciuti in modo straordinario, fino a raggiungere i 7,6 milioni attesi nel 2015, collocandola al terzo posto in Europa, dopo Londra e Parigi e davanti a Roma. Ma Barcellona, le sue infrastrutture, le sue risorse e attrazioni, non sembrano in grado di poter assorbire un tale impatto in modo indolore e la città corre il pericolo di diventare vittima del suo stesso successo. Il rischio è, da una parte, che l’eccesso di presenze vada a determinare l’insoddisfazione del turista, dovuta al sovraffollamento, al traffico, all’inquinamento, al deperimento della qualità dei servizi; dall’altra che si vadano a compromettere le caratteristiche e gli equilibri ambientali, sociali e culturali della destinazione. Se ciò avvenisse si provocherebbe la distruzione del capitale reputazionale e socio-ambientale della città.
In questi casi occorre definire una strategia di demarketing, finalizzata a ripristinare una situazione di turismo sostenibile. A monte, laddove possibile, si può intervenire sull’offerta, ampliando e migliorando infrastrutture e servizi. Poi, occorre definire la capacità di carico (o di assorbimento), ovvero il numero massimo di arrivi sostenibili in ciascun periodo, e per conseguenza cercare di programmare/ridurre/destagionalizzare la domanda, per rientrare nei limiti della capacità individuata, utilizzando i molteplici strumenti a disposizione (normative, regolamenti, prezzi, servizi, comunicazione, etc.).
Nel caso di Barcellona, un punto dal quale partire è sicuramente la regolazione del turismo crocieristico, che costituisce una quota rilevante degli arrivi, pari a circa il 30% del totale. Tali turisti portano un modesto beneficio all’economia cittadina, non pernottano e spesso non consumano neanche un pasto, ma producono un notevole impatto sul sistema. Dunque potrebbe essere opportuno intervenire, almeno evitando lo sbarco dalle navi di crociera nei periodi di maggiore afflusso. Problema, questo, che affligge anche Venezia.
Il turismo, indubbiamente, può contribuire in misura significativa allo sviluppo economico, occupazionale e sociale di una destinazione, ma a condizione che esso si realizzi in condizioni di sostenibilità. Questo tema è di particolare importanza nel nostro Paese, per il quale il turismo è uno dei settori portanti dell’economia, che produce oltre il 10% del PIL e da occupazione a circa 2,5 milioni di persone.
In Italia abbiamo risorse turistiche uniche al mondo, che devono essere messe a sistema. Abbiamo diverse città d’arte (si pensi anzitutto a Roma, Firenze, Venezia) ma anche piccole destinazioni (come ad esempio Capri, San Gimignano e tantissime altre), con le rispettive risorse culturali (musei, etc.), che potrebbero giovarsi di una maggiore programmazione e di un approccio professionale di Destination Management e, in alcuni casi, di vere e proprie strategie di demarketing.
Naturalmente servono competenze specifiche. Ma, sovente, i decision maker sono dei politici di professione, o professionisti di altri campi prestati alla politica. E, altrettanto spesso, il corpo amministrativo delle nostre istituzioni non ha una preparazione adeguata in materia. Un problema che, purtroppo, ricorre spesso.