Il mondo della distribuzione contro il Regolamento Ue sui termini di pagamento

La proposta di imporre 30 giorni come termine di pagamento perentorio per tutti i fornitori rischia di creare rigidità nel mercato anche in situazioni che fino ad ora hanno dimostrato di funzionare bene secondo le regole di mercato

Le buone intenzioni non bastano. L’orientamento dell’Unione europea, che si appresta a introdurre un Regolamento con l’obbligo di pagare tutti i fornitori entro 30 giorni, agita il mondo della distribuzione.

Scelta etica, ma la forma…

“Intervenire sul rispetto dei pagamenti è corretto perché, quando si acquista un servizio o un bene materiale, è giusto poi rispettare quanto convenuto dal punto di vista dei termini di pagamento -è l’analisi di Edoardo Gamboni, direttore commerciale del gruppo VéGé -. Ma in questo caso, o perlomeno, riguardo ai rapporti tra industria alimentare e non solo e retailer, sin da quando c’è stata l’adozione dell’articolo 62, è raro che un retailer non abbia rispettato i termini di pagamento, che diffusamente, almeno sul mondo degli alimentari deperibili e sul mondo dei freschi è stato indicato rispettivamente a 60 e 30 gg”.

Secondo Gamboni l’intervento comunitario “sicuramente toglierà grandi risorse sia all’industria, che a sua volta dovrà poi rispettare i termini anche verso tutta la filiera che compone la produzione e i retailer”. Con la conseguenza che i più colpiti saranno “come al solito i piccoli, che naturalmente non avranno sia da una parte che dall’altra non avranno più questo agio un settore, come la cura della casa, che non ha bisogno di un termine così restrittivo”.

Per Gamboni, la rigidità è accettabile solo relativamente al  rapporto nei pagamenti fra pubblico e il privato, considerato che sono frequenti i casi di aziende “che vincono appalti e gare e poi non ricevono rispetto dei termini di pagamento nonostante i sacrifici che abbiano presentato per vincere quella gara”.

Critiche allo strumento scelto

Per Maniele Tasca, direttore generale del gruppo Selex, è sbagliata in primo luogo la scelta di procedere tramite regolamento, e non con una direttiva come inizialmente previsto, dato che il primo non lascia spazi di adattamento alle singole normative nazionali. “Inoltre non trova giustificazione la scelta di non differenziare il regime applicativo tra le diverse categorie merceologiche, considerato che storicamente si tratta di filiere con caratteristiche ed esigenze differenti. Non è concepibile il medesimo trattamento tra lo yogurt e un bene semidurevole”, è l’esempio citato.

Secondo Tasca, si va verso un approdo che smentisce gli intenti dichiarati, cioè la tutela dei soggetti deboli e la situazione rischia di aggravarsi ulteriormente in uno scenario di tassi elevati, dato che si rischia un effetto a catena. “Se un’impresa vede ridurre drasticamente i termini di pagamento, per coprire i costi finanziari che ne conseguono potrebbe essere costretta ad alzare i prezzi e generare nuova inflazione", aggiunge.

Gli equilibri si spostano verso i produttori globali

Secondo Emanuele Cosimelli, chief financial officer di MediaWorld, la modalità di applicazione indistinta del termine di 30 giorni rischia di dar luogo a “effetti contrari rispetto alla volontà di maggior tutela espressa dai Legislatori. Nel mondo dell’elettronica di consumo, in particolare, le dimensioni globali dei fornitori non necessitano di questa forma di tutela – sottolinea -. L’intervento, invece, costituisce un ulteriore vantaggio a favore dei produttori globali, che si rifletterebbe sui prezzi finali ai consumatori, che già subiscono gli effetti di un minor potere d’acquisto per via dell’aumento di inflazione e costi dell’energia”.

Inoltre, l’esperto sottolinea un aspetto relativo alla tempistica delle rotazioni a scaffale. “Per i prodotti di elettronica di consumo è in media ben superiore a 30 giorni, per cui le imprese del settore sarebbero costrette a ricorrere a finanziamenti per far fronte a pagamenti non ancora coperti dagli incassi che, in un contesto di picco storico del costo del denaro, potrebbe comportare un ulteriore aumento dei prezzi finali di vendita”.

Insomma si rischia un vero e proprio pasticcio, nonostante le buone intenzioni.

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