(*) strategy director FutureBrand
Orgoglio e vanto del nostro Paese, quando leggiamo del made in Italy troviamo di tutto, dalle autocelebrazioni appassionate fino ad avviliti allarmismi, si spazia dall’automotive all’alimentare, dalla moda alla meccanica di precisione, fino alla cantieristica e oltre. Il made in Italy vale 585 miliardi di euro di esportazioni, pari a 31,7% del nostro Pil (fonte: Ice) ed è espressione di un sistema e di una cultura che si confrontano con un mercato ormai globale, digitale e caratterizzato da gruppi di grandissime dimensioni, mega holding proprietarie di alcuni tra i più pregiati campioni del made in Italy come, per esempio, Gucci, Richard Ginori, Ducati, Ferretti, Peroni, Lamborghini, Parmalat e Valentino, solo per citare alcuni brand non più italiani. A questo punto, è lecito chiedersi quanto queste marche debbano rimanere coerenti con la propria storia e con il territorio da cui originano per continuare a definirsi prodotti del made in Italy e ad avere successo.
Il made in Italy è il secondo brand al mondo per qualità percepita dopo il made in Germany, mentre al terzo posto troviamo a pari merito il made in France e il made in UK (fonte: YouGov). Per quanto ci venga spontaneo applicare il gergo del marketing, dobbiamo essere consci che non tutto può essere definito un brand. In passato, un marchio si identificava per un’identità visiva e un logotipo che ne codificava l’aspetto. Oggi, questa definizione si è ampliata e l’essenza di un brand comprende anche la dimensione esperienziale, la coerenza valoriale che connota la fruizione del prodotto/servizio da parte del consumatore.
Se proviamo ad applicare queste due definizioni -visiva ed esperienziale- al made in Italy, ci accorgiamo che non esistono elementi visivi unitari né aspetti valoriali codificati trasversali ai “nostri” brand. In definitiva, qualunque tipo di esperienza all’interno del made in Italy, per quanto premiante, non è riconducibile a linee guida standardizzate. Viste le premesse, il made in Italy non potrebbe definirsi un brand in senso stretto; tuttavia, è indiscutibile che esistano elementi percepiti, anche se non codificati, che rendono il made in Italy un’esperienza coerente nella sua specificità.
Come alimentare il made in italy
Uno degli esercizi più effimeri richiesto nelle aule di design è di definire l’identità visiva del made in Italy. Calare dall’alto qualcosa per tentare di circoscrivere un’esperienza sfaccettata, articolata e complessa come quella dei prodotti italiani, di qualsiasi prodotto italiano, significa non comprenderne le peculiarità e le unicità.
Il made in Italy esiste e viene tenuto in vita dal basso, da chi lo realizza e ci lavora ogni giorno. In pratica, è una cultura, un modo di pensare e di fare, un’attitudine tramandata da secoli, che non può essere racchiusa in uno slogan o in un logo; è piuttosto qualcosa che si alimenta giorno per giorno.
Come possiamo, allora, alimentare il brand del made in Italy?
Prima di tutto facendo sistema, per raggiungere una massa critica tale da influenzare le dinamiche del contesto in cui ci si muove. Piccolo non è bello, come amava ripetere Leonardo Del Vecchio. Poi, bisogna formalizzare cultura e principi, per stabilire quando un oggetto, un prodotto diventa made in Italy e quando non lo è più; andare oltre gli stereotipi per cercare di innovare nella tradizione, senza fermarsi alla mera celebrazione del passato.
E, ancora, valorizzare le persone per non disperdere il know how: esistono, infatti, nobili e antiche professioni che senza un adeguato supporto rischiano di scomparire.
Infine, l’individuare obiettivi raggiungibili: in un mercato super competitivo occorre superare i campanilismi e cercare di abbracciare una visione comune, capace di proiettarsi nel futuro. Avere un’idea condivisa è probabilmente il primo vero passo per la creazione di una marca. Da questa visione potranno scaturire altri elementi come segni, logo e linguaggi che, all’occorrenza, potrebbero essere adottati, ma non imposti. Sono adottati, infatti, solo gli strumenti che riconosciamo.
Una delle problematiche nell’applicare queste riflessioni è la difficoltà di riassumere e sintetizzare l’essenza del made in Italy: nel branding, infatti, bisogna saper ridurre per valorizzare: dire troppe cose senza una precisa gerarchia equivale a non dire nulla. Non per niente, nel marketing strategico, la parola d’ordine è purpose, la ricerca di uno scopo alto che motiva le marche oltre il risultato economico, l’elemento federativo cioè, che caratterizza l’essenza di un brand nella mente del consumatore.
Probabilmente il made in Italy ha già in potenza un purpose condiviso. Individuare uno scopo non è esercizio di stile, ma aiuta a raccogliere attorno a sé tutti gli attori che lavorano, utilizzano e creano il made in Italy. Le cose più semplici a volte sembrano le più complesse. Per realizzare un ottimo progetto di branding non è necessario inventare nulla; c’è piuttosto da sapersi guardare dentro, per scegliere le cose più importanti su cui costruire.
I territori possono far leva su caratteristiche identificative che, nel marketing, si possono riassumere come azioni di country branding. L’obiettivo è di rendere i Paesi dei brand, massimizzando riconoscibilità e attrattività, come nei casi del Buthan e di Regione Toscana
Country Branding
Il country branding è la disciplina che si occupa di trattare e trasformare i Paesi in marche, per massimizzarne la riconoscibilità e l’attrattività nei confronti di turisti, investitori, persone disposte a trasferirsi, ma anche target locali. Molti sono i casi interessanti, uno di questi è il Bhutan, un Paese che ha saputo identificarsi con un elemento differenziante: la felicità. Infatti, secondo studi e ricerche, il Bhutan può vantare la popolazione più serena al mondo. Questo elemento, una volta individuato, si è trasformato in linguaggio sia verbale sia visivo. Un codice spendibile su tutta una serie di elementi che hanno permesso a una nazione, piccola e remota, di assumere una forte connotazione e rendersi riconoscibile.
Il country branding può essere applicato anche a realtà locali. La comunicazione della Regione Toscana, ad esempio, si distingue all’interno di uno scenario competitivo assai denso e agguerrito. Per connotare la propria offerta, la Regione ha scelto di ripartire dalle origini, rivisitandole in modo innovativo, e così al Rinascimento è stato restituito un nuovo significato, più intimista e contemporaneo, un elemento federativo e filtro attraverso cui tutta l’offerta del territorio diventa unica e proprietaria.