Il latte? È più sostenibile di molti altri cibi (sono i dati a dirlo)

Immagine generata da intelligenza artificiale di Copilot
La produzione di latte ha un impatto ambientale meno rilevante di quanto si creda. La ricerca Ircaf mostra che quello italiano ha un'impronta favorevole

Come qualsiasi attività umana, produrre latte ha un impatto sull’ambiente. Ma, dati alla mano, è molto meno rilevante di quanto si creda (o si voglia far credere).

E proprio i dati e i metodi corretti per calcolare l’impronta ambientale della produzione lattiera sono stati il fulcro dell’incontro “Il latte: amico o nemico?” organizzato dalla Fondazione Invernizzi in collaborazione con l’Ircaf - Centro di riferimento agro-alimentare Romeo ed Enrica Invernizzi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

“Apprezziamo il latte -ha detto Giuseppe Bertoni, presidente di Fondazione Invernizzi-, un alimento che presenta molti aspetti positivi, e quanto all’impatto degli allevamenti, se non consideriamo produzioni intensive, non ci sarà cibo per tutti”.

Ripresa dal professor Lorenzo Morelli, ordinario di microbiologia all'Università Cattolica che ha messo al centro il ruolo del consumatore, che è bombardato da informazioni diverse e spesso errate. “Da qui nasce l’idea di questo incontro e della ricerca Ircaf -ha dichiarato Morelli-. Sono stati fatti dei lavori per rispondere a diverse domande da un punto di vista interdisciplinare. Importante, quando si parla del consumatore, è la percezione della qualità del latte analizzata da un punto di vista psicologico ma anche i fattori economici e di salute degli animali. Per questo il coinvolgimento di tre diversi atenei milanesi (Cattolica, Bocconi e Statale) per fare un’analisi congiunta ma con punti di vista diversi”.

La ricerca Ircaf

È stato poi il professor Erminio Trevisi, direttore di Ircaf e del dipartimento Diana dell’Università Cattolica, ad approfondire il tema della giornata. E lo ha fatto partendo da qualche dato utile a inquadrare correttamente la questione. Il settore agroalimentare è responsabile del 30% delle emissioni globali di gas serra (Ghg), ma ha registrato una riduzione del 30% negli ultimi 20 anni. In Italia, considerando il 2022, le emissioni dovute all’agrifood sono diminuite del 20% rispetto al 1990 e del 12,2% rispetto al 2005.

Trevisi si è poi concentrato sulla valutazione della sostenibilità ambientale del latte attraverso il metodo del life cycle assessment (lca) e la sua evoluzione nel nutritional lca (nlca), che considera anche il valore nutrizionale degli alimenti. Il lca è un metodo scientifico per quantificare l’impatto ambientale di un prodotto lungo il suo ciclo di vita, ma presenta limiti legati alla qualità dei dati, a scelte soggettive e alla difficoltà di confronto tra prodotti simili. Il nlca, proposto da anni dagli scienziati e fatto proprio nel 2021 dalla Fao, introduce nuove unità funzionali basate su aspetti nutrizionali, come il contenuto calorico, proteico o di specifici nutrienti.

A questa chiara presa di posizione della Fao si aggiunge il lavoro svolto recentemente da Ircaf, con una ricerca nella quale si dimostra come il nlca degli allevamenti italiani sia in realtà ancora più favorevole di quanto riporti Fao (che, ovviamente, si rifà a medie mondiali) e al tempo stesso come il concetto di “qualità” nel settore lattiero-caseario sia ancora da affinare e definire.

La ricerca ha analizzato 94 aziende lattiero-casearie italiane (alcune di montagna e la maggior parte di pianura), utilizzando la metodologia product environmental footprint (pef). Sono state valutate diverse unità funzionali nutrizionali, evidenziando una netta riduzione delle emissioni rispetto ai riferimenti Fao.

Ma non è tutto. Il confronto tra latte e bevande vegetali mostra una grande differenza nella carbon footprint se rapportata alla composizione e qualità nutrizionale. Ad esempio, il latte ha un impatto ambientale più elevato per kg di prodotto, ma un migliore profilo nutrizionale rispetto alle alternative vegetali.

Le ricerche future puntano a integrare dati più rappresentativi sugli impatti ambientali e nutrizionali, creando nuove unità funzionali che includano anche l’impatto sulla salute e altri parametri oltre alla massa o al volume del prodotto.

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Allargare lo sguardo

Ma il convegno, tenuto negli spazi del centro congressi di palazzo Invernizzi a Milano, è stato anche il momento per allargare lo sguardo sul mondo del latte e della sua produzione. E il punto di vista internazionale l’ha portato Stefano Gatti, direttore generale per la cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri che ha sottolineato il ruolo centrale giocato dall’Italia leader del dibattito sul tema del cibo.

Mentre il cittadino-consumatore è tornato al centro con l’intervento del professor Claudio A. Bosio e dalla professoressa Guendalina Graffigna entrambi psicologi dei consumi e della salute che con un’analisi sui social media condotta dal Centro di ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica hanno spiegato come, partendo dalla rappresentazione sociale della “qualità del latte”, emerga come questo cibo abbia forti valori simbolici, ancestrali, affettivi che prestano il fianco a interpretazione e distorsioni. Importante è quindi trovare un punto di confronto e ascolto con il consumatore che spesso viene influenzato da dibattiti sui social che nascono da cattive interpretazioni dei dati.

Ma il latte è sostenibile?

“Lo è anche dal punto di vista economico, ma a determinate condizioni”, ha affermato il professor Vitaliano Fiorillo, direttore dell’Invernizzi agri-lab della Sda Bocconi. “Oggi abbiamo un problema di competitività delle nostre aziende agricole – ha spiegato Fiorillo. Anche perché tutte devono sostenere continui investimenti in tecnologia per stare al passo (anche per la sostenibilità) e tutte hanno un elevato grado di indebitamento. Servono quindi le competenze manageriali per impostare una strategia, avere flessibilità, controllo delle finanze, tutti aspetti che oggi per lo più mancano, anche nelle grandi realtà”.

Un punto di vista diverso sulla sostenibilità, ma fondamentale perché in ottica one health, è quello portato dal professor Claudio Bandi, ordinario di microbiologia all’Università di Milano che ha affrontato il tema della sanità degli allevamenti. Bandi ha illustrato i risultati di una ricerca in cui sono state confrontate diverse tipologie di allevamento bovino per la produzione di latte: intensivo, biologico ed estensivo. E in relazione alla circolazione di agenti infettivi, lo studio ha mostrato come allevamenti di tipo biologico o di tipo estensivo non offrano particolari vantaggi rispetto ad allevamenti intensivi, dai quali giunge la maggior parte del latte munto in Italia. È quindi toccato al professor Paolo Ajmone Marsan, ordinario di miglioramento genetico all’Università Cattolica e direttore del Crei, Centro di ricerca Romeo ed Enrica Invernizzi per le produzioni lattiero-casearie sostenibili – tirare le fila conclusive del dibattito, con una panoramica dei criteri tradizionali e di quelli innovativi per la valutazione della qualità del latte, confermando che il nostro genoma dice che il latte è un alimento che ci fa bene.

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