I titoli della proprietà intellettuale conferiscono un diritto di esclusiva non solo attraverso il marchio ma anche attraverso tutti segni distintivi: denominazioni, forma e packaging del prodotto.
D: perché è importante anche per il retailer conoscere le norme che regolano la proprietà intellettuale?
“L’importanza della consapevolezza degli strumenti di proprietà intellettuale -illustra l’avv. Francesca la Rocca Sena, partner dello studio legale Sena & partners- e dell’esistenza di un divieto di concorrenza sleale nell’ambito delle norme del Codice civile per il retailer è duplice. In primo luogo, per valutare i rischi in cui può incorrere commercializzando prodotti altrui. Infatti, il giudizio di contraffazione e/o di concorrenza sleale che coinvolge il produttore ha dei riflessi anche rispetto al rivenditore che può subire direttamente o indirettamente l’esecuzione di provvedimenti quali il divieto di commercializzare, il ritiro di merci oltre che il sequestro. D’altra parte, conoscere gli strumenti legali attraverso i quali si possono valorizzare e tutelare i propri asset aziendali è fondamentale anche per i retailer”.
D: la proprietà intellettuale si ferma alla denominazione o include altri ambiti?
“È importante sapere che i titoli della proprietà industriale conferiscono un diritto di esclusiva -continua La Rocca Sena- e che, in particolare attraverso il marchio, possono essere tutelati tutti i segni distintivi, consistenti non solo nelle denominazioni, ma anche nella forma e nel packaging del prodotto. Basti pensare alla famosa forma piramidale del cioccolato Toblerone ed alla relativa forma triangolare del suo incarto che tutti conoscono. In ambito food & beverage, ma non solo, la forma dei prodotti e delle confezioni riveste certamente una parte importante delle strategie aziendali per distinguere il proprio prodotto da quello dei concorrenti o per rendere il prodotto stesso più “appetibile”. Pertanto, il retailer deve prestare attenzione quando seleziona i prodotti da vendere e organizza la loro esposizione. Infatti, sempre con riferimento al marchio occorre sapere che l’esposizione dei prodotti nello store, specialmente quando si tratta di marchi particolarmente affermati sul mercato, deve essere conforme alla loro immagine per evitare contestazioni. Altrimenti, il titolare di un marchio potrebbe lamentare la violazione del suo diritto di esclusiva, anche quando il prodotto venduto dal retailer è originale, ogni qualvolta le modalità di vendita dello stesso siano tali da arrecare pregiudizio all’aurea di prestigio del suo marchio. Per esempio, in un recente caso Chanel ha lamentato la vendita di profumi a proprio marchio da parte dello store Tigotà ed il Tribunale di Milano, accogliendo il ricorso della nota casa di moda, ha riconosciuto che effettivamente le modalità di vendita adottate da Tigotà ledessero gravemente l’immagine di prestigio di Chanel per l’accostamento dei prodotti Chanel a una vasta gamma di prodotti di qualità inferiore comunque di tipologie diverse (quali ad esempio per l’igiene della casa o articoli per animali); la pronuncia del Tribunale ha altresì rilevato che l’aspetto interno dei negozi (con scaffali disordinati, carrelli per la spesa in plastica, corridoi interrotti da stand pubblicitari) non rispecchiasse quello che ci si attenderebbe da una profumeria di lusso e che anche la mancanza di personale adeguatamente formato potesse svilire l’immagine di esclusività e di prestigio del marchio Chanel. Del resto, è utile conoscere che il divieto di concorrenza sleale comprende, non solo gli atti confusori ma anche tutte le pratiche in contrasto con i principi della correttezza professionale. Nell’applicazione di tale divieto incorre spesso la sempre più diffusa pratica del cosiddetto look alike, ovvero l’adozione per prodotti simili di confezioni che ricordano gli elementi caratterizzanti di prodotti più conosciuti, con il fine di trarre vantaggio dalla notorietà e dalla reputazione di questi ultimi, inducendo l’acquirente a ritenere che si tratti dello stesso prodotto o di uno collegato, in qualche modo autorizzato dal primo produttore, facendo comunque indebitamente leva su un’esperienza positiva per determinare una scelta successiva differente. È una pratica particolarmente diffusa nei più diversi ambiti del largo consumo, anche con riguardo agli articoli di lusso, quali, per esempio, champagne e liquori, ambito in cui sono molto frequenti i casi di riproduzione dell’abbigliaggio delle bottiglie e di imitazione delle confezioni dei prodotti di marca più accreditati sul mercato”.
D: Per quanto riguarda un punto di vendita e le sue caratteristiche distintive? Possono anche queste essere tutelate?
“Il concept dei punti vendita dei negozi e il layout dei siti -riferisce l’avv. Elisabetta Berti Arnoaldi, anch’essa partner dello studio legale Sena & partners- possono essere oggetto di tutela attraverso gli strumenti della proprietà intellettuale e l’eventuale imitazione può essere repressa attraverso l’azione di contraffazione e/o di concorrenza sleale. Al concept store è infatti stata riconosciuta tutela autorale, come nel caso dei negozi Kiko, sia quella di marchio, ad esempio, per gli Apple Store. Importantissimo, poi, conoscere e adottare le misure idonee per tutelare il proprio patrimonio informativo ed il know-how commerciale (i.e. inter alia la formula della Coca Cola). Si intendono per segreti commerciali le informazioni aziendali e le esperienze tecnico industriali comprese quelle commerciali, tra cui le liste clienti e fornitori. Informazioni e dati che costituiscono il principale valore del patrimonio sociale. È, quindi, oggi fondamentale sapere che esistono gli strumenti per la tutela di questi asset aziendali dalla loro illecita acquisizione, utilizzo e divulgazione da parte di concorrenti, fatti che causano alle imprese un danno economico e competitivo spesso assai rilevante. È anche molto importante conoscere le condizioni di utilizzo di questi strumenti”.
D: Esistono poi delle precauzioni da adottare anche in materia di comunicazione, non è così?
“Non si deve sottovalutare l’importanza della normativa in materia di comunicazione commerciale -continua Berti Arnoaldi-, oggi più che mai, per evitare di ricadere nella fattispecie del greenwashing. È ormai risaputo che i consumatori sono sempre più attratti da prodotti green ed eco friendly e che, come risposta, le imprese siano sempre più rivolte a vantare la sostenibilità dei propri prodotti e l’impronta ecologica delle proprie policy aziendali. Tuttavia, è parimenti indubbio che i prodotti green costituiscono un costo per le aziende e che pertanto, in assenza di regole precise in merito, sia diventata una prassi comune quella di reclamizzare come sostenibili strategie industriali che, in realtà, poco o nulla giovano all’ambiente, sfociando appunto nel fenomeno oggi noto come greenwashing variamente sanzionato anche a livello di Giurì della Autodisciplina Pubblicitaria e di Autorità Garante. Più in generale, è comunque necessario prestare la massima attenzione a tutti i contenuti della comunicazione commerciale che è suscettibile di contestazione da parte non solo dei concorrenti, ma anche dei consumatori per contrarietà ai generali divieti di ingannevolezza, comparazione scorretta e di imitazione, ma anche per contrasto con le specifiche norme vigenti nei diversi settori merceologici. È bene sapere che la comunicazione commerciale comprende, tra l’altro, anche le scritte sulle confezioni, sugli espositori e sul materiale illustrativo dei prodotti, i filmati proiettati a circuito chiuso, nei punti vendita, ecc. Questo significa che qualsiasi provvedimento giudiziale che ordini la cessazione o la modifica di una comunicazione commerciale si applica (con margini di tolleranza assai brevi) colpisce anche tutti questi materiali e chi ne fa uso”.