Il risparmio cresce più dei consumi
di Giovanni Cobolli Gigli - Federdistribuzione
@federdis
Gli ultimi dati Istat sul 3° trimestre 2015 descrivono bene il comportamento delle famiglie: aumenta il reddito disponibile rispetto trimestre precedente (+1,3%), ma questa “nuova ricchezza” viene riversata sul risparmio (+0,9%) piuttosto che investita in consumi (+0,4%). Escludendo il settore auto che aumenta a doppia cifra, l’incremento dei consumi è pericolosamente vicina allo zero. Siamo quindi ancora lontani da una ripresa generalizzata. Perché il risparmio prevale sul consumo? I consumi torneranno quelli di prima? Come stimolare la domanda interna, da parte del Governo ma anche da parte delle imprese? Proviamo a dare qualche sintetica risposta: gli italiani sono un popolo di risparmiatori. Nei momenti più gravi della crisi hanno dovuto intaccare lo stock di risparmio, ma ora che emerge qualche segnale positivo tentano di ristabilirlo, anche perché disorientati di fronte a una situazione che presenta ancora grande volatilità e molte incognite sul futuro, disincentivando gli acquisti. E’ una tendenza che durerà ancora per qualche tempo. Sui consumi: la crisi ci ha fatto cambiare modelli e comportamenti. Ci siamo abituati a consumare di meno, o in modo diverso. La sobrietà e la razionalità si sono sostituite all’acquisto compulsivo. Sprechiamo di meno e acquistiamo in base a priorità e a reali esigenze. La crescita dei consumi sarà quindi lenta e graduale anche nel futuro. Che fare? Per il Governo si tratta di sostenere i redditi più bassi, evitare ogni possibile freno (come le clausole di salvaguardia) e continuare nel percorso di riduzione della pressione fiscale sulle famiglie recuperando risorse dalla lotta all’evasione.
Anticorpi in difesa della civiltà
di Mariano Bella - Confcommercio
@confcommercio
Mentre l’economia stenta a trovare la strada per la crescita, come testimoniato dalle continue oscillazioni dei principali indicatori su produzione, occupazione e consumi, restano gravi alcuni difetti sistemici che impattano prima sui nostri portafogli e poi sulle statistiche macroeconomiche. Nonostante gli sforzi di tante amministrazioni pubbliche, le inefficienze degli enti locali vengono sempre pagate dai cittadini. Nel caso della Tari, che dovrebbe coprire la spesa per la gestione completa dei rifiuti, due negozi, per esempio, di calzature, uguali, ma in Comuni differenti, possono pagare 8-9 volte l’uno più dell’altro a parità di servizio (da 90 fino a 700 euro, per 50 mq). Su base nazionale, la distanza tra ciò che dovrebbe costare in Italia la gestione dei rifiuti urbani, secondo i fabbisogni standard, e ciò che costa realmente è pari a 1,3 miliardi di euro (ogni anno), senza, appunto, alcuna giustificazione. Considerando Irap e addizionali Irpef comunali e regionali, a Roma e nei comuni del Sud un imprenditore con imponibile Irap e Irpef di 50.000 euro paga mediamente tra 1.000 e 2.000 euro di imposte in più rispetto al suo omologo residente al Nord. Al di là degli extra-costi complessivi, le disparità territoriali dovute alla mancata applicazione dei costi e dei fabbisogni standard, appaiono odiose. Alla maggiore inefficienza pubblica corrisponde, infatti, l’impoverimento dei cittadini a causa dell’incremento della pressione fiscale. Le nuove migrazioni dal Sud al Nord dell’Italia dipendono non solo dalle scarse opportunità di lavoro, ma anche dall’insufficiente qualità dei servizi pubblici associata a un maggior carico tributario.
I centri commerciali valorizzano i territori
di Massimo Moretti - Presidente Cncc e Head of Business Unit Portfolio Beni Stabili SIIQ
Oggi lo Stato ha bisogno di risorse per ridurre il debito pubblico e rilanciare l’economia, e nel contempo è proprietario di un patrimonio immobiliare enorme che non solo non produce reddito ma, in quanto inutilizzato, è fonte di costi. Patrimonio immobiliare che imbruttisce le nostre città, crea cesure nel territorio, e luoghi spesso insicuri. Ma chi può acquistare questo patrimonio? E stiamo parlando di miliardi di euro. I centri commerciali possono essere una soluzione per il riutilizzo di questa patrimonio, come insegnano altre esperienze europee (Francia in primis). Il centro commerciale, tradizionalmente nelle zone extraurbane, per scelte politiche oggi superate, oggi può recuperare territorio, bonificarlo, pagare oneri di urbanizzazione in gran quantità (fin troppi) per le esangui casse comunali, restituire un oggetto dalla forte valenza architettonica, pulito, sicuro, soprattutto dove la gente vuole andare, rendendolo cosi vivo. Questo piccolo “miracolo” può avere volumi con cicli triennali, a valore finale del costruito di circa 2 miliardi di euro (stima dei cantieri oggi in essere in Italia). Noi come Cncc stiamo costruendo ponti, alcuni stanno rispondendo … C’è un ma. Non possiamo immaginare che uno sviluppo immobiliare duri vent’anni, tempo ormai trascorso, per esempio, dall’acquisizione dei terreni del centro commerciale di Arese, di imminente apertura (aprile 2016). Un business plan a vent’anni non ha senso. Ecco quindi che non possiamo acquisire caserme, che pur c’interessano: abbiamo bisogno di immobili sui quali sia stato già avviato un percorso amministrativo/politico adeguato, con risultati già raggiunti. Lavoriamoci insieme.
Agevolazioni sui brevetti e quindi sull’innovazione
di Sandro Castaldo - Università Bocconi
@CastaldoSandro
Con la nuova legge di stabilità è arrivato anche in Italia il Patent Box: un’agevolazione fiscale che permette di ridurre fino al 50% l’imponibile che deriva dall’uso di marchi, brevetti, know-how e software. Il 2016 sarà certamente un anno di sperimentazione, in cui la collaborazione e il dialogo tra Agenzia delle entrate e contribuente sarà cruciale. Infatti, la disciplina si applica attraverso una procedura di “ruling”, in cui le parti concordano i metodi e i criteri di calcolo del reddito prodotto da questi beni intangibili. Comunque, il dado è tratto. Finalmente anche in Italia si potrà ottenere un’agevolazione fiscale collegata alle risorse immateriali di marketing (i marchi) e di conoscenza innovativa (brevetti e software). Le imprese italiane stanno ricevendo un bel segnale: se hai investito in innovazioni tecnologiche (protette da brevetti), marchi registrati o in software e database unici, e se puoi dare evidenza che questi investimenti producono reddito, hai la possibilità di accedere ad una consistente agevolazione fiscale. Un vero “booster” per l’innovazione tecnologica e di marketing del nostro sistema economico, che non bisogna sottovalutare, visto che il regime di agevolazione può coprire un periodo di cinque anni, con possibilità di rinnovo. Siamo entrati anche noi nell’era dell’economia della conoscenza. Meglio tardi che mai! Le imprese devono però affrettarsi. La finestra temporale per presentare domanda su alcune tipologie di intangible è di alcuni mesi. Quindi attrezziamoci per avviare questo primo anno di apprendimento e per valutare e valorizzare correttamente questi asset immateriali.
“Diversity Media Awards” come leva di marketing
di Andrea Notarnicola - Partner Newton Management Innovativo 24 ORE Group
Nel mese di maggio 2016 vengono presentati i primi “Diversity media Awards”, gli “Oscar” italiani ai migliori contenuti per media, cinema, tv e pubblicità sui temi Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender). Il premio vuole riconoscere coloro che hanno contribuito a offrire una corretta interpretazione di questa realtà della società italiana. Valorizzare i contenuti che uniscono il mondo omosessuale e quello etero, anziché dividerli, facilita il processo di evoluzione culturale. E nello stesso tempo coinvolge le marche promotrici dell’iniziativa che vogliono proporsi come leader del cambiamento. I “Diversity Media Awards” godono del sostegno di Google, in qualità di sponsor, e di Discovery Italia come media partner. Tra le nomination delle varie categorie in concorso si segnalano “Io e Lei” con Margherita Buy e Sabrina Ferilli nella categoria cinema, “Grey’s Anatomy” per la serie tv, Mika, Fedez e Tiziano Ferro per il personaggio dell’anno. Secondo l’Osservatorio di Pavia, 2BResearch, analizzando i 6 principali telegiornali italiani degli ultimi dieci anni le notizie sul mondo Lgbt sono state solo lo 0,3% del totale ma si segnala un trend di crescita confermato dal primo semestre 2015. Negli Usa si celebrano dal 1990 i Glaad Media Awards (Gay&Lesbian Alliance Against Defamation) grazie al coinvolgimento di alcuni grandi brand del largo consumo. Queste tematiche non riguardano solo il mondo Lgbt: le marche che promuovono il cambiamento lavorano sul tema della discriminazione e si interrogano sulla dimensione della dignità umana. Il benessere e lo sviluppo della società intera diventano protagonisti della comunicazione d’impresa.
La reputazione: “Carneade chi era costui?”
di Massimo Giordani - Digital Achitect
@MassimoGiordani
Chi non ci tiene a godere di buona reputazione? Tutti sappiamo quanto è importante potersi fidare di una persona con cui si lavora o dalla quale ci si rifornisce di prodotti e servizi. Eppure, nel mondo digitale, questa consapevolezza è ben lungi dall’essere diffusa al punto che molte persone, aziende, marchi e prodotti, non hanno ancora adottato una strategia per sviluppare quella digital reputation che è alla base del successo on-line (e quindi anche off-line). In termini operativi, è importante sapere che la reputazione sul web, in generale, e sui social media, in particolare, è misurabile attraverso una serie di strumenti che consentono di avere parametri oggettivi sui quali valutare il proprio posizionamento rispetto a quello, per esempio, tenuto o prescelto dai propri concorrenti. Trascurando i sistemi più sofisticati e costosi, chiunque può scoprire qual è il suo indice social attraverso, per esempio, www.klout.com, un servizio che analizza, attraverso appositi algoritmi, quanto sono efficaci i contenuti che pubblichiamo sui vari social media che presidiamo. Proprio sul tema degli algoritmi che sottostanno a questa misurabilità della nostra presenza digitale si è aperta un’accesa discussione tra opposte fazioni.
Indicatori come Klout sono estremamente utili per avere una prima valutazione comparativa, il più possibile oggettiva, sulla qualità della presenza social di un qualunque soggetto, persona o azienda che sia. Provate a sviluppare un’analisi su di voi e sui vostri concorrenti, farete delle scoperte interessanti.
Gli specializzati cambiano le abitudini di acquisto
di Roger Botti
direttore creativo Robilant Associati
Chi ha un animale domestico in casa di certo conosce Arcaplanet: “il paradiso degli animali”. Centinaia di metri lineari di scaffali sui quali si trova tutto il necessario, in materia di cibo e accessori, per i nostri “pet”. L’esempio di Arcaplanet è un prestesto per registrare tre fenomeni: una nuova tipologia di retail specializzato si sta affermando sulla scena distributiva; la capacità di rispondere alle esigenze del nostro target; le opportunità che, da questi nuovi layout, potrebbero nascere per i produttori. Evidentemente acquistare in questi negozi richiede da parte dei “pet-owner” un investimento ben diverso dall’andare a fare la spesa per sé. Ciò implica che, come acquirente, l’offerta che mi aspetto è non solo più vasta e specializzata, ma in qualche modo anche “esclusiva”, speciale, pensata ad hoc per questo canale. In breve l’investimento di tempo e la dedizione richiesta devono essere giustificati da una proposta che non trovo altrove. Ed è proprio in questo frangente che si aprono nuove opportunità per l’industria del settore. A differenza della Gdo generalista, in cui gli alti “fee” e la velocità di rotazione dei prodotti dettano legge, questi luoghi hanno letteralmente bisogno di riempire un’area espositiva decisamente estesa e di farlo con un’offerta specifica, unica e il più variegata possibile. Questo sistema può diventare per i produttori lo spazio dell’innovazione, della specializzazione, dell’appropriamento di un territorio di relazione con il target specifico, che in altri contesti sarebbe impossibile da replicare. E quindi, in un’ultima analisi, lo spazio ideale per costruire valore di marca!
Si pensa solo all’operatività, non alla strategia
di Carlo Meo
Adesso che è finito se ne può parlare in libertà senza ledere l’amor patrio. Ora che la vita è tornata normale, possiamo andare al succo della questione, lasciando perdere numero di biglietti venduti e contenuti in linea o meno con il tema della manifestazione: cosa abbiamo imparato dall’Expo? Che esperienza si portano a casa i visitatori e le aziende? Guardando i gruppi di pensionati, gli studenti e i bambini in coda per ore ai padiglioni o per provare le specialità dei vari paesi, non c’è dubbio che il nostro paese, sempre un po’ provinciale, si sia aperto al mondo. E non è poco rispetto a una società che fa fatica ad accettare il diverso e che negli ultimi anni si è ripiegato su se stesso mettendo in discussione anche il progetto europeo e la sua moneta. Persone che non hanno la possibilità e neanche la cultura per viaggiare e conoscere altri paesi, nonché per confrontarsi su temi globali, sono passati per i tornelli di Expo. Per le aziende vale lo stesso discorso: tutte brave a produrre e parlare di qualità e Made in Italy, ma sempre in difficoltà di fronte all’innovazione dei significati di consumo e alla commercializzazione in altri paesi. Se noi non ci apriamo al mondo, in questo caso abbiamo avuto la fortuna che il mondo è venuto da noi. Ci abbiamo provato a ragionare in una logica internazionale, spesso in modo confuso, ma la novità è appunto che le aziende hanno reagito, si son date da fare. Ma ora inizia il bello: “provarci” non basta più, ora forti di questa esperienza bisogna ripartire con strategie chiare e una declinazione dell’innovazione in operatività, per essere chiari un po’ meno festa di paese/pizza e mandolino, e molto più azienda.