Durante una visita a un ipermercato con una collega, ci è capitato di fare la seguente riflessione: negli ultimi anni sono emerse nuove categorie come il biologico, il salutistico o cibo funzionale, o ancora la famiglia sempre più estesa dei prodotti “senza” (glutine, lattosio...). Queste novità non sempre sono inserite nel posto che corrisponde alla loro merceologia nello scaffale, ma vendute in posti specifici nel negozio, creando gli “shop in the shop”. Raggruppare questi prodotti -che per altro sono anche abitualmente più profittevoli- permette di offrirgli una migliore visibilità attraverso un effetto d’insieme e la logica del distributore, ovvero ottimizzare economicamente i suoi spazi disponibili, è rispettata. La regola implicita di ordinare i prodotti in base alla categoria merceologica sta ormai subendo talmente tante eccezioni che alla fine il percorso di spesa risulta confuso. Difatti, spaccare le categorie comporta anche il rischio di creare percorsi di spesa più frammentati, in contrasto con l’idea di trovare tutto nello stesso posto, unica condizione per fare una scelta consapevole tra le diverse opzioni disponibili e soprattutto, per i clienti, di potere confrontare i prezzi tra vari prodotti di una stessa famiglia. Questi due approcci ripropongono l’eterno dilemma per la gdo; il retail è alla fine un continuo confronto tra due logiche a volta antagoniste tra loro: i punti di vendita da una parte, conformati in base ai clienti e al territorio e, dall’altra parte, la selezione ed esposizione delle merci con le logiche di categoria portate dai fornitori. Con scelte di merchandising come espressione di queste due logiche diverse e a volta contraddittorie.