Spesso le aziende italiane e in particolare il retail sono accusate di nanismo. Il tessuto produttivo italiano, lo sappiamo, è fatto da piccole e medie imprese, magari fortissime nel loro campo, ma con poca capacità di esprimere questa forza al di fuori del nostro Paese e, in alcuni casi, al di fuori del proprio territorio. L’eccessiva frammentazione che ne risulta pone dei limiti importanti a una crescita dell’intero comparto e della filiera che lo nutre.
Una cultura difficile da smuovere, che preferisce fare da sé piuttosto che attingere a fondi e finanziamenti, che predilige l’essere “padrone a casa propria” alle opportunità di sviluppo offerte dal mercato dei capitali. Fatti di cui si discute da anni senza che cambi granché, ma qualcosa si sta muovendo; la necessità di ingenti investimenti in tecnologie e il fastidio di gareggiare con il fiato sempre troppo corto dell’economia reale con chi, invece, prende ossigeno dalla finanza, sta muovendo le imprese italiane verso nuovi modelli di finanziamento, oggi, resi possibili anche da un mercato finanziario domestico che si sta parimenti evolvendo.
Infatti, aldilà dei problemi culturali e della sindrome del “faccio tutto da solo,” possiamo dire che anche il mercato finanziario italiano ha sofferto di nanismo rispetto a Paesi come Francia, Spagna e Germania. Nel 2021, la Francia ha investito 27 miliardi di euro (+53%) contro i 12,6 della Germania (-16%), i 7,5% della Spagna (+19%) e i 7 dell’Italia (+33% - dati Aifi). Un distacco che l’Italia sta cercando di coprire; infatti, durante i due anni di pandemia, il numero di operazioni di private equity e venture capital nel retail è diminuito notevolmente: dalle 33 operazioni del 2019 si è scesi alle 19 del 2020 (-42%). Nel 2021, l’attività di investimento ha ripreso a correre mettendo a segno 45 nuovi deal (+36% vs 2019), per un ammontare di 557 milioni di euro. Guardando meglio questi dati, diffusi da Confimprese, durante il convegno dello scorso anno “Finanza e Retail”, attestano però che le imprese coinvolte in questi deal sono principalmente quelle che afferiscono alla ristorazione commerciale. La gdo continua ad essere poco attratta (o attraente) per il mercato finanziario. Forse la soluzione più adatta non passa dal cooptare pratiche diffuse all’estero, ma nel creare un modello italiano che non tralasci le possibilità di finanziamento ma, nel contempo, prenda atto della conformazione della gdo italiana, legata al territorio e ai suoi imprenditori. Un modello che prenda per dato l’assetto attuale e che punti alle alleanze, ai deal fatti a pacchetto, che dia un nuovo ruolo alle centrali, con expertise adatte a reperire capitali da investire e a disegnare strategie di lungo respiro.
Competere su più canali, investire sul futuro, permettersi errori... il retail alimentare si misura in un’arena dove piccolo non è “bello”, ma solo pericoloso, meglio cambiare registro.