La pandemia sta cambiando in maniera diffusa modelli di consumo e di comportamento, ponendosi, con ogni probabilità, come punto di non ritorno rispetto agli standard precedenti. Tra igienizzazione e plexiglass, tutte le buone pratiche di sanificazione anti Covid-19 devono entrare a far parte di una routine ben consolidata, in modo che impatti positivamente sull’organizzazione aziendale, su lavoratori e clienti. Il business della sanificazione ha raddoppiato le sue cifre positivamente (+100%, dati Confcommercio) e, di concerto con il protocollo sanitario da rispettare, determina nuove modalità di lavoro in presenza (limitazioni alle riunioni, agli spazi condivisi, nessun evento interno consentito e formazione in presenza, ecc.). Bisogna, allora, pianificare e riprogettare i meccanismi formali di interazione, dato che si limitano i luoghi di incontro per il coordinamento abituale tra le persone, al fine di non incorrere in processi di rallentamento ed inefficacia organizzativa, con le inevitabili conseguenze sulla qualità del lavoro.
I protocolli sanitari incidono anche sulle modalità di svolgimento del lavoro dei singoli dipendenti che possono in certi casi incorrere in fenomeni di frustrazione, se non avviene una rimodulazione delle mansioni lavorative corredate dalla necessaria formazione. In realtà, ciò è collegato ad un problema più strutturale, ovvero la mancanza del cosiddetto Life Long Learning (Formazione continua) che bisognerebbe in generale adottare come buona pratica in pratica. Ci sono stati dei tentativi in Europa di passare, in tal senso, dalla teoria alla pratica, ma ancora non si è arrivati ad un modello del tutto funzionale e replicabile. Ad esempio, in Francia esiste il Compte personnel d'activité – il Conto personale di attività (CPA) – che prevede un montante di risorse dedicato ai lavoratori per potersi formare: agli inizi sembrò una misura capace di ricadute positive sulla questione; tuttavia, nella pratica, sta avendo complicazioni nello stesso tessuto socio-economico francese. La complessità sta soprattutto nel rapportarsi ai lavori meno specializzati, per un problema sistemico di mancanza di orientamento al lavoro agli inizi, unito ad una tendenza che diventerà sempre più marcata in tutte le economie avanzate nel prossimo futuro, ovvero la polarizzazione delle competenze nel mercato del lavoro. Tale polarizzazione nella domanda di lavoro – ad altissima o bassissima competenza, travolgerà gli equilibri di mercato e causerà la perdita dei cosiddetti lavori a media competenza (a cui corrisponde, generalizzando, la fascia media di reddito), determinando sempre più frequenti turn-over lavorativi, con le relative conseguenze su prospettive di vita e stabilità delle persone.
Sapersi reinventare e adattare alle esigenze del mercato è ancora qualcosa di estremamente complesso, partendo da sistemi scolastici e universitari che non sono pronti a formare i ragazzi per le professioni del futuro o quanto meno a dotarli delle soft skill necessarie per approcciarsi a nuove professionalità (è arcinoto lo studio del World Economic Forum che dimostra come il 65% dei bambini che oggi vanno a scuola, una volta diplomati o laureati, svolgeranno dei lavori che ad oggi ancora non esistono, ma che è possibile provare ad immaginare). In un mondo del lavoro che richiede sempre più flessibilità e adattabilità, il rischio è che l’odierna Learning Society (il concetto risale già al 1968 con il testo “The Learning Society” di Robert Maynard Hutchins), invece di ampliare lo spettro delle opportunità per tutti i cittadini, non faccia altro che rimarcare le disuguaglianze, giocando a favore di un maggiore Cognitive divide, contribuendo a costruire sistemi che privilegiano coloro che già possiedano il capitale culturale e/o materiale per poter accedere alle migliori offerte educative e professionali. Qui si inseriscono allora una serie di riflessioni possibili relative al Welfare, al cui interno rientrano le macrocategorie del “Workfare” e “Learnfare” e di un loro conseguente bilanciamento.
Al di là di tali teorizzazioni, quello che, però, è immediatamente evidente è che “futuro” sarà sempre più sinonimo di “digitale” e che, in una molteplicità di casi, si deve ancora tenere conto che lo stesso accesso alla rete è una precondizione non soddisfatta. Infatti, il fattore abilitante per un futuro di questo tipo è quello del diritto alla connessione, che viene spesso dato per scontato, ma che in realtà presenta non poche sfide. C’è un gap di accesso alle risorse digitali anche oltre alla rete (1/3 delle famiglie in Italia non ha dispositivi elettronici, dati AGCOM). Inoltre, le caratteristiche orografiche della penisola rendono gli investimenti in banda larga degli operatori privati non sempre un business allettante. Sempre sulla base di dati AGCOM (Ottobre 2019), circa l’8% della popolazione non è coperto alla banda larga; e la fibra ottica copre solo il 20% della popolazione con un grande divario tra conglomerati urbani e rurali. Tutto questo, de facto, comporta un’esclusione di certi gruppi della società (più anziani, donne disoccupate, persone con disabilità, ecc.) che risultano oggettivamente più svantaggiati nel godere anche solo delle esternalità positive derivanti da un accesso assicurato alla connessione digitale. Vi sono, però, dei segnali positivi all'orizzonte: il Decreto Cura Italia fa esplicito riferimento alle criticità dell’accesso alla rete e alle risorse digitali affidando all’AGCOM il compito di esplorare nel dettaglio la questione.
Vi è, tuttavia, un rovescio della medaglia. Infatti, vi sono casi in cui si pecca per eccesso e la pervasività del digitale, ha superato di gran lunga la soglia del buon senso, specialmente in una condizione di pandemia dove sono state limitate le libertà individuali, escludendo qualsiasi altro tipo di reazione a tali situazioni. Si ricerca, quindi, come complementare al diritto di connessione, anche quello alla disconnessione. Il “Tele-Working”, “Home-Working”, “Covid-Working” (o come lo si voglia chiamare, è scorretto chiamarlo "Smart-Working" se non vi sono alla base delle premesse di lavoro agile) ha generato uno stato di connessione continua che rende difficile una separazione tra vita lavorativa e vita privata. Infatti, Home labour e Market labour, solitamente separati per spazio e tempo, sono ora collassati in una continuità spazio-temporale, portando ad una frammentazione del lavoro senza una distinzione tra tempo di lavoro e tempo personale. Ciò impatta maggiormente su categorie come i Care giver che hanno su di loro la maggior parte dell’Home labour (donne in particolare, causando una forte distorsione di genere) – e che spesso sono soggetti a salari più bassi, da cui dipendono anche il livello di tecnologia e spazio a disposizione.
Alcuni studiosi parlano, allora, di fatica digitale: un fenomeno dalle molteplici sfaccettature, legate sia agli aspetti organizzativi del lavoro legate, come si diceva allo spazio e al tempo, come anche alle stesse interazioni lavorative. Infatti, nell’interazione di persona si utilizza una componente verbale di concerto con una paraverbale che rende meno faticosa la comunicazione, risultando in modalità di coordinamento più immediate; al contrario interagire tramite uno schermo impone l’utilizzo di strutture più complesse del cervello che richiedono più fatica e sforzo, nell’esplicitare molti più aspetti.
La soluzione a tali circostanze starebbe nel ripensamento dei processi di lavoro, valorizzando le opportunità che questa forzatura di distanziamento fisico ha provocato e sta provocando. L’ideale sarebbe quello di poter adottare modalità lavorative che permettano una gestione tra online e offline, in modo da trarre i benefici di che il lavoro a distanza oggettivamente ha. Si tratta di rimodulare il rapporto tra individuo e impresa sulla base di una “disintermediazione fisica”. È chiaro, infatti, che la pandemia ha accelerato il mercato del lavoro in due direzioni: 1) lavoro di prossimità per particolari contesti territoriali; 2) un mercato del lavoro completamente liquido/fluido di talenti in logica full remote. A proposito di quest’ultimo, è di pochi giorni fa l’annuncio di Jack Dorsey – CEO Twitter – per cui i dipendenti del social network potranno decidere se e quando tornare in ufficio, indipendentemente dalla fine della pandemia. Dorsey è in buona compagnia, dato che, in generale, il dibattito sul cosiddetto “perma-WFH” (Permanent Working From Home) è in grande fermento con Mark Zuckerberg del gruppo Facebook sulla stessa lunghezza d’onda e con il CEO di Shopify, Tobi Lütke, che ha dichiarato che “Office centricity is over”.
In questo panorama, bisogna ricordare che, comunque, gli uffici fisici rimangono importanti per il ruolo identitario che possiedono, ma, parallelamente, si può rivoluzionare in maniera positiva l’imprinting al lavoro, puntando su una maggiore responsabilizzazione dei singoli e su delle metodologie effettivamente smart che valorizzino attitudini e competenze di ognuno, migliorino la qualità di vita, con una particolare attenzione sugli impatti ambientali.