È indubbio che la crisi internazionale abbia accelerato la necessità di un processo di responsabilizzazione delle scelte sia delle imprese sia dei consumatori, stimolando entrambi a collaborare per l’ambita sostenibilità. Si dice che la pandemia abbia segnato il punto di non ritorno, sollecitando ciascuno ad agire più eticamente per contribuire a rendere il mondo un posto migliore. Si dice… ma, come recita un saggio proverbio, tra “il dire e il fare c’è di mezzo il mare”! Però, quale mare?
È il mare della comunicazione, attraverso e in cui navigano i messaggi che aziende e consumatori scambiano nei vari canali on e offline, e che per i loro contenuti spesso poco chiari e incoerenti o per mezzi inadeguati, naufragano o ancora peggio affogano.
La comunicazione efficace, spesso la Cenerentola delle attività di pianificazione aziendali e individuali - niente sembra più facile del comunicare -, reclama oggi il ruolo da principessa per ottenere la sostenibilità.
Comunicare in modo efficace il processo di responsabilizzazione delle scelte è la chiave di volta del processo. Ciò può garantire che l’emittente codifichi correttamente il messaggio (come sto responsabilizzando le mie decisioni), scelga i canali e mezzi corretti per farlo percepire e interpretare dal destinatario, ovvero decodificare in modo coerente (percepisca la responsabilizzazione dell’emittente). Il risultato determinerà un feedback, ovvero il flusso di risposte comportamentali e non del destinatario, consonanti o dissonanti rispetto all’obiettivo di comunicazione originale dell’emittente e influenzerà la relazione nel tempo.
Se è vero che ciascuno deve fare la propria parte, la mia seconda tesi, peraltro ormai condivisa, è che debbano essere le imprese con le loro marche a divenire le emittenti principali, preoccupandosi di comprendere il campo d’esperienza del destinatario (valori, atteggiamenti del consumatore) e così riuscire a comunicare nei modi e tempi corretti la loro responsabilità economica, ambientale e sociale, nota anche come Corporate social responsibility (Csr).
Come affermò P. Drucker, ogni business fonda la sua ragion d’essere nella creazione di un cliente soddisfatto; ma di quale soddisfazione si parla oggi?
Molti dati evidenziano che la pandemia abbia intensificato nelle persone il desiderio di acquistare prodotti che le aiutino ad essere più responsabili, alleviando un po' il loro senso di colpa (alimentato soprattutto dai social media) di vivere in una società diseguale e ingiusta. I prodotti diventano mezzi per raggiungere il fine, cioè il valore più elevato, ma anche ostico da perseguire, della sostenibilità nel consumo.
In altre parole, la parte che devono svolgere le marche oggi è di servire quali soluzioni quotidiane che supportino la responsabilizzazione delle scelte del consumatore, con suggerimenti concreti che lo aiutino a divenire più etico (ad es. beni realizzati da filiere etiche).
Il consumatore, anche cittadino, genitore, lavoratore, ed elettore, non può che rappresentare l’anello cruciale da coinvolgere per il successo dell’agire “responsabile” dell’impresa (Csr). Perciò l’impresa dovrà comunicare in modo corretto i suoi sforzi di Csr al consumatore, per poi monitorarne la coerenza della percezione. Solo così potrà evitare il rischio di vanificarli o di vedere sprecato parte del loro potenziale e riuscire a stimolare, agevolandole, scelte di consumo più responsabili.
Le tesi vanno sostenute con i dati. Vi riporto in sintesi i risultati di alcune ricerche quantitative relative a due brand leader a livello internazionale dello sportswear, segmento del settore moda, da tempo accusato per il suo forte impatto ambientale (emissioni di Co2) e sociale (lavoro minorile). Lo studio della percezione delle attività di Csr svolte da queste due imprese ha evidenziato come i campioni di consumatori italiani intervistati decodifichino in modo incoerente tale sforzo, pur documentato da bilanci sociali e riconoscimenti, e che parte di questo rimanga solo mero potenziale. Inoltre, la relazione che emerge tra le tre dimensioni della Csr (economica, ambientale e sociale) dei due brand evidenzia come quella economica sia percepita slegata dalle altre due, che appaiono invece fortemente correlate tra loro. In sintesi, la codifica della triplice responsabilità delle imprese non coincide con la decodifica percepita dagli intervistati.
Inoltre, l’intensità della comunicazione della Csr effettuata conta, e dipende su quale delle tre dimensioni viene concentrata. Nel primo caso, l’azienda non veniva percepita dal campione come responsabile; pur essendo cliente della marca, non conosceva iniziative di Csr promosse dall’impresa. Nel secondo caso, grazie ai maggiori investimenti in comunicazione dell’impresa, gli intervistati percepivano l’impegno di Csr ma circoscritto alla sua dimensione sociale, quella più enfatizzata nei messaggi aziendali; mentre non la valutava responsabile sotto il profilo ambientale.
Il rischio che l’impresa seppure responsabile possa vedere in parte sprecati gli sforzi intrapresi ai fini della sostenibilità, penalizzando la sua capacità di stimolare un consumo più etico, può concretizzarsi anche per imprese molto note e impegnate da anni in azioni di Csr. Non scordiamoci la prima regola della comunicazione, ovvero che il messaggio è ciò che viene percepito e non ciò che si voleva far percepire!
Il saper fare, in questo caso un saper fare responsabile d’impresa, deve essere fatto sapere nei modi e tempi appropriati, con contenuti e mediante canali che supportino il consumatore nella sua responsabilizzazione, innestando il circolo virtuoso domanda-offerta necessario per costruire una società più sostenibile.
*Prof.ssa Associato in Marketing e Management, Università degli Studi di Trieste - Dip. DEAMS