Cognitive warfare: l’impatto del business già alle prese con una sindemia

In un periodo in cui le crisi in corso causano una sindemia, i brand possono trovare un posizionamento di successo con il "Social Business"

Uno dei concetti che più è rimbalzato sui media in questi giorni segnati dal drammatico conflitto russo in Ucraina è quello di “guerra ibrida”. Lasciando i manuali specialistici e le conferenze di politologia frequentate dagli addetti ai lavori per diventare famigliare al pubblico generalista, questa espressione è forse la migliore per descrivere la portata disastrosa degli eventi in corso. Questo perché ciò a cui si sta assistendo ne rappresenta uno degli esempi più espliciti, condensando in un unico conflitto tutte le dimensioni: terra, aria, mare, spazio e cyber. Basta informarsi su un qualsiasi resoconto di questi giorni di guerra per notare come questi elementi siano contemporaneamente presenti e reciprocamente interdipendenti nell’esercitarsi sul campo. Riducendo ai minimi termini la questione, quello che emerge anche in questa sede è una compenetrazione di fisico e digitale che si muovono in perimetri e livelli più o meno temporalmente sovrapponibili esattamente come è avvenuto anche in un contesto di business a dimostrare come la convergenza sia una dinamica trasversale.

Sindemia

Due anni di pandemia seguiti senza soluzione di continuità dal conflitto in corso hanno generato di fatto quello che si può identificate come sindemia. Il termine, coniato negli anni ’90 dall’antropologo medico Merrill Singer, descrive una situazione dove problemi legati alla salute, come le epidemie (e qui rientra ovviamente il Coronavirus, che si affianca anche però anche a fenomeni sempre più dilaganti come obesità, malnutrizione, ecc.) si sovrappongono problemi sociali, ambientali, economici e culturali, come ad esempio i cambiamenti climatici, stili di vita sedentari dovuti a un certo tipo di organizzazione del lavoro, ed oggi purtroppo pure una guerra. Di fatto, la sindemia è la risultante delle interazioni tra elementi biologici e sociali, che alterano e modificano continuamente gli stati e le condizioni di salute e che possono incrementare la suscettibilità delle persone a possibili danni, e quindi essere determinanti nel peggioramento dello stato di salute. Tutta questa situazione, quindi, serve a ricordare come questo continuo stato di minaccia incombente non sia propizio, e per quanto ovvio sia, che salute, benessere psico-sociale e crescita economica sono strettamente legati.
L’attuale situazione sindemica, e tra tutto quello che questa comporta la guerra in corso in queste ore in particolare, obbliga ad una riflessione forzata il business (e specialmente le aziende più grandi, big tech in testa) che sono coinvolte in proporzioni inedite.
Il ruolo delle aziende in questa fase così delicata è dare prova concreta ai compliance ai propri valori. Non sfruttare questo momento per alimentare una comunicazione manipolatoria, ma mettersi a disposizione, con quello (prodotti/servizi/ messa a disposizione di asset) che sanno fare meglio. Il futuro dei brand è sempre più in un rapporto biunivoco con l’etica, da cui dipende la sua reputation.

Social business

A fronte di questo scenario, vale la pena riprendere un modello che potrebbe prestarsi molto bene alle istanze e alle necessità di questo congiuntura. Si tratta del “Social Business”, termine coniato dal premio Nobel per la pace Muhammad Yunus (famoso per essere il padre del microcredito) negli anni Settanta (presso l’Università di Firenze dal 2011 si trova l’Yunus Social Business Centre (YSBCUF), un centro dedicato al social business e l’impresa sociale). Partendo dalla formulazione di Yunus, il Social Business si può concretizzare in un’organizzazione che coinvolge nella sua vita organizzativa tutti gli individui che compongono il proprio ecosistema (dipendenti, clienti, partner, fornitori) al fine di massimizzare il valore scambiato. L’assunto di base presuppone come il business debba adattarsi alla comunità dei clienti in modo da incontrarne i bisogni. Il Social Business può, quindi, partire dal ricorso a concetti social come condividere, valutare, recensire, connettersi, collaborare, tutte parole chiave dei social, e immetterli nel mercato. Come affermano Laura Liguori e Andrea Castelli in un approfondimento per Psicologiadellavoro.org, “un Social Business dunque è un’azienda che si pone in una relazione osmotica con il proprio ecosistema ed è capace di adattarsi di continuo alle esigenze intercettate”. In altre parole, in questo particolare periodo di spiccata fragilità psicologica, oltre che materiale, potere ritrovare in un brand un alleato su cui poter contare e che esplicita l’essere portatore di un certo asset valoriale, lontano dalla manipolazione e attento ai bisogni, marcherà l’impronta futura del successo dello stessa azienda.

Guerra cognitiva

Già nel periodo pandemico si è sperimentato quanto il ruolo dei brand fosse più ampio di quanto tradizionalmente venisse assegnato dal senso comune. Il brand trust, la fiducia conquistata con il consumatore-cittadino è stato un elemento a sostegno per superare il momento di difficoltà con diverse modalità. La guerra innesca altre dinamiche, sempre di crisi, ma diverse da quelle pandemiche In particolare, un aspetto relativo alla parte digitale, o meglio alle ricadute immateriali a questa connesse, e che allo stesso tempo ne sono un’esacerbazione, è la cosiddetta guerra cognitiva (Cognitive warfare). Come si legge in un pezzo della NATO Review, la cognitive war ha come campo di battaglia la mente e, per raggiungere i suoi scopi, necessita di un mix di capacità informatiche, informative, psicologiche e di ingegneria sociale. In tale panorama, il ricorso a internet e ai social media per colpire individui influenti, gruppi specifici e un gran numero di cittadini, in modo selettivo e seriale, è essenziale. Il digitale, infatti, rappresenta un'arma potentissima perché capace (spesso in maniera subdola ed evanescente) a seminare il dubbio, introdurre narrazioni contrastanti, polarizzare l'opinione, radicalizzare i gruppi, incitando alla formalizzazione di atti che possano interferire o frammentare una società altrimenti coesa. Le piattaforme social, in particolare, creano un'eco virtuale, risultato della continua elaborazione (in maniera più accessibile rispetto a prima) di flussi di informazioni spesso però progettati fin dal principio - e con dolo e premeditazione - per influenzare il modo di pensare di determinate target audience. Questi meccanismi diventano tanto più insidiosi se si va a cavalcare l’onda di un’ansia collettiva provocata da eventi traumatici, che fanno della imprevedibilità una costante con cui doversi misurare giornalmente.
I risvolti psicologici di tutto quello che sta accadendo (guerra, pandemia, crisi energetica e chi ne ha più ne metta) sono molto più difficile da decifrare di quelli drammaticamente fisici, a maggior ragione in situazioni emergenziali. E per questo e altri motivi, l'elemento trust ha e avrà un ruolo sempre portante anche nella dimensione in cui i brand vivono e interagiscono con il cittadino-consumatore.

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