(*) strategy director Future Brand
Immagine coordinata. Rigore. Continuità. Ecco i tre elementi chiave di un brand noioso e destinato all’irrilevanza. Sì, proprio il contrario di quanto insegna qualsiasi manuale di marketing. Se non avete già voltato pagina, approfondiamo insieme il tema. Come tutte le scienze umane, anche il marketing non vive di dogmi e regole, bensì di conoscenze che si aggiornano, adattano ed evolvono in base al contesto. E oggi il contesto in cui le imprese agiscono -la società, il mercato- è profondamente diverso dagli anni in cui si sono sviluppate molte delle cosiddette teorie classiche del marketing e del branding. I nostri tempi sono popolati da messaggi e contenuti incessanti, veloci, frammentati e mutevoli. Un flusso magmatico di comunicazioni, immagini, notizie, offerte e prodotti diversi dove la sfida non è più solo raggiungere il pubblico, ma farlo con contenuti disruptive, capaci di catturare l’attenzione in una frazione di secondo, interrompere lo scrolling e farsi ricordare. Queste dinamiche stanno influenzando profondamente le strategie delle imprese, che hanno dovuto cambiare, e talvolta sovvertire, il loro modo di rivolgersi ai consumatori per intercettarne nuovamente l’interesse e restare rilevanti: comunicare tutti i giorni, più volte al giorno per mantenere visibilità e share of mind; generare contenuti inattesi per sorprendere, incuriosire e attrarre nuovi pubblici; cercare ispirazione al di fuori della marca, in modo da nutrire il brand attraverso stimoli esterni provenienti dalla società, dal mercato, dai consumatori.
Un sistema aperto
In questo contesto, il classico approccio del branding come “immagine coordinata”, basato sul far apparire tutte le espressioni di marca visivamente simili, e per questo riconoscibili, deve cedere il passo a un approccio alla marca come sistema aperto, permeabile, coerente nei principi ma mutevole e collaborativo. Anche nei confronti di altri brand. Nell’era moderna del branding l’unione fa davvero la forza. Le partnership e le attività di co-branding stanno emergendo come strategia per raggiungere la notorietà verso pubblici più ampi. Il co-branding non nasce oggi: è una strategia di marketing di lungo corso il cui obiettivo dichiarato è unire le forze con altri soggetti per trasferire valore all’esterno attraverso la condivisione e lo scambio di risorse. Oggi, però, le tipologie di co-branding sono cresciute e si sono affinate. Vediamone alcune.
Il product-based co-branding è la collaborazione tra brand diversi per lanciare nuovi prodotti realizzati insieme o per innovare prodotti già esistenti. Ne sono esempio i cosiddetti ingredient co-branding, in cui un brand inserisce nel proprio portfolio prodotti una referenza che usa uno o più ingredienti di un altro brand. È il caso, per esempio, delle TicTac Coca-Cola Limited Edition, nate dalla collaborazione tra Ferrero e Coca-Cola Company, e del McFlurry Smarties, nato dalla collaborazione McDonald’s e Nestlé.
Il communication-based co-branding vede invece una collaborazione tra brand finalizzata allo sviluppo d’iniziative di promozione e marketing congiunte. Uno degli esempi più famosi è stata la partnership tra Red Bull e GoPro, che nel 2012 toccò l’apice del successo con Stratos, l’evento in diretta streaming mondiale, durante il quale il base jumper Felix Baumgartner saltò da un pallone a elio posto a 39 chilometri sopra il New Mexico.
Presupposti simbolici
Negli ultimi anni si sta facendo strada una nuova tipologia di co-branding: il brand hacking. In questo caso la relazione tra i brand non è fondata su obiettivi commerciali o promozionali, ma su presupposti simbolici e di brand message. Collaborando tra loro, i brand mirano ad appropriarsi ciascuno di parte dei codici, della coolness e della categoria merceologica dell’altro, a sottolineare ciò che li rende simili e, al tempo stesso, dimostrare gli effetti sorprendenti che il loro incontro e reciproca contaminazione possono determinare. Il successo di queste iniziative non riguarda solo i dati di vendita o le impression di comunicazione, ma la loro capacità di spostare, modificare, evolvere l’immagine di uno o di entrambi i brand nella mente dei consumatori in modo inatteso. Il brand hacking è diventato una delle modalità più ricorrenti con cui le imprese del lifestyle e del food sviluppano iniziative di collaborazione e co-branding, come dimostrano alcuni casi di successo degli ultimi anni: Kith per Coca-Cola Collection, Moschino per Budweiser, Supreme per Oreo, Crocs per Kfc, le sneaker in limited edition Chunky Dunky, nate dalla collaborazione tra Nike e Ben & Jerry’s.
Per la sua capacità di agire direttamente sui capisaldi dell’identità e dell’immagine del brand, intraprendere un’iniziativa di brand hacking richiede di studiare e definire con attenzione tre elementi chiave:
- la scelta del partner: deve essere coerente in termini sia di brand reputation e posizionamento di marca desiderato, sia di capacità d’azione e raggiungimento degli obiettivi di business e comunicazione;
- il purpose della collaborazione: è fondamentale che i brand siano allineati sul messaggio che vogliono trasmettere. Il purpose può essere definito come la ragione d’essere della collaborazione, il motivo per cui essa esiste al di là business economico;
- le regole d’ingaggio: ciascuno dei brand coinvolti ha la responsabilità dell’immagine -e quindi in parte la reputazione- del partner brand. Per questo motivo, è necessario specificare nel dettaglio quali saranno le attività, pianificare e condividere ogni particolare.
Oggi, il co-branding è davvero uno strumento straordinario per riuscire ad avere successo a patto che alla base della partnership vi sia un forte purpose condiviso: un obiettivo comune che va oltre il profitto e risuona con i valori e le aspirazioni dei consumatori. Attraverso un impegno autentico verso questo scopo condiviso, i brand possono non solo aumentare la loro visibilità e influenza, ma anche creare un impatto positivo duraturo sulla società.
Un esempio di product-based co-branding è il McFlurry Smarties, prodotto nato dalla collaborazione tra McDonald’s e Nestlé. Il product-based consiste nell’inserire nel proprio portafoglio una referenza che utilizza uno o più ingredienti di un altro brand. Per le sneaker in limited edition Chunky Dunky di Nike e Ben & Jerry’s si tratta, invece, di un’altra tipologia di co-branding, il brand hacking.
Nel brand hacking la relazione tra brand è basata su presupposti simbolici e di brand message. Collaborando, le marche puntano a far propri parte dei codici e della coolness dell’altro dimostrando la reciproca contaminazione. Si tratta di una delle modalità più utilizzate da aziende del lifestyle e del food per sviluppare collaborazioni di co-branding. Tra i tanti casi, anche Kfc per Crocs.