Dove va il vino italiano? In un mercato fluido si innestano alcuni trend consolidati. A cominciare dalla ricerca crescente della bottiglia di qualità che sia occasione di convivialità (secondo il principio tuttora valido del bere meno, ma bere meglio). Quindi il fattore green, con i suoi tanti addentellati: bio, biodinamico, sostenibile. Dal punto di vista del gusto la direzione vira, poi, verso un prodotto più immediato, sospinto dai millennial, che già premia le bollicine più easy. Meno barrique e più acciaio, insomma. E bottiglie che esaltino il vino-frutto.
La lettura generale per il nostro Paese è in chiaroscuro. Da una parte ci sono i nostri plus da rinsaldare. Il brand made in Italy che determina forte attrazione sui mercati internazionali, perché legato all’Italian style, connubio di qualità e bellezza. Una specificità che deve continuare a essere il nostro biglietto da visita sugli altri mercati, pena la perdita di reputazione. Quindi la leadership nella biodiversità, che si esprime in 800 vitigni autoctoni stimati: un patrimonio di gusto, che è figlio di un variegato terroir. I gradimenti di consumo segnano una tendenza in questa direzione, che premia il fattore local. Molti sono pronti a scommettere che sia l’anno di svolta. E che valorizzando questa ricchezza si potrebbero aprire nuovi spazi di mercato, oggi sempre più ristretti. Una strada che potrebbe anche alimentare ulteriormente l’enoturismo in forte crescita: il vino, alla fine, vende un paesaggio (il giro d’affari è di circa 3 miliardi nel nostro Paese con prospettive di crescita secondo l’associazione nazionale Città del Vino).
A fianco dei punti a favore ci sono le debolezze. Il prezzo medio è dimezzato rispetto a competitor come la Francia. Soffriamo l’arma a doppio taglio delle tante piccolissime Doc, la polverizzazione delle aziende e delle denominazioni che mancano di un brand unico comunicativo (c’è chi suggerisce Vinitaly, nome magico nel mondo, come veicolo di promozione internazionale). Gap che paghiamo soprattutto nell’intercettare i mercati orientali, ma che incide anche nei mercati maturi, come gli Usa, dove si comincia a sentire il fiato sul collo dei Paesi vitivinicoli emergenti del Sudamerica e dell’Australia.
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