Nonostante il piano del Governo non sia ancora dettagliato, in linea di massima emerge che si vuole la chiusura delle serrande la domenica e più in generale nei giorni festivi, salvo eccezioni. Luigi Di Maio avrebbe parlato di 8 domeniche/festivi aperti, rispetto alla libertà di oggi. Inoltre, si starebbe anche ragionando sulla possibilità di lasciare aperto a rotazione il 25% degli esercizi e di rimandare alle Regioni la scelta se e in che misura limitare le chiusure nelle località turistiche. Ecco le posizioni del retail.
Federdistribuzione parte dallo scenario macro. Il presidente Claudio Gradara fa riferimento ai dati più recenti, cioè al calo del commercio al dettaglio (-0,6% a luglio in termini di valore rispetto a 12 mesi prima) e alla contrazione della produzione industriale (-1,3% a luglio nel confronto a un anno, la prima contrazione dal 2016), per sottolineare che un freno al commercio per via legislativa non sarebbe nell’interesse del Paese. “Siamo di fronte a segnali di rallentamento del nostro sistema economico, che creano preoccupazione e incertezza per il futuro. In questo contesto, l’idea di far chiudere la domenica i negozi appare davvero incoerente”. Per quale ragione, si chiede Gradara, si pensa di introdurre limiti e restrizioni che non possono che provocare un ulteriore indebolimento del sistema? “È evidente a tutti che le chiusure, determinando meno ore e giornate di apertura, implicheranno meno vendite e consumi, meno occupazione e meno investimenti da parte delle imprese. Accentuando così il trend calante in atto. In questa fase, la priorità dovrebbe essere quella di prevedere un forte sostegno ai consumi per irrobustire la crescita e valorizzare il mondo distributivo, che ha attraversato la crisi garantendo convenienza, occupazione e tutela del potere d’acquisto dei cittadini a scapito della propria redditività”.
Una posizione alla quale si accoda in pieno Esselunga.
Giorgio Santambrogio, Ad del gruppo VéGé e presidente di Adm, mostra una cauta apertura all’ipotesi di lavoro dell’esecutivo: “A patto che non vengano adottate soluzioni rabberciate”. Il riferimento è alla possibilità paventata di escludere dall’obbligo delle chiusure domenicali i comuni turistici e di consentire aperture a rotazione per un quarto dei punti di vendita. “Prendiamo il caso di Milano: è o no un Comune turistico? Chi lo decide? Se la risposta è sì, perché un negozio nella periferia ovest può restare aperto, mentre quello di un Comune confinante resta chiuso? Si tratta di un esempio per chiarire che servono regole omogenee: se si decide che dobbiamo restare chiusi un certo numero di domeniche l’anno, non ci opponiamo, ma la regola deve valere per tutti. Anche perché, nelle diverse domeniche del mese vi è una differente disponibilità di denaro nelle tasche delle famiglie. Restare aperti la seconda o la quarta domenica non è la stessa cosa”.
Santambrogio contesta anche l’idea che il passo indietro in tema di liberalizzazioni introdotte dal Governo Monti sia a vantaggio dei piccoli esercenti. “Se le regole sono omogenee, non c’è un operatore che trae maggiore (o minore) vantaggio di altri. E non è scontato che le chiusure domenicali siano avversate dai dipendenti. Quel 30% di stipendio in più previsto per chi lavora nei festivi fa comodo a molti lavoratori del settore. Spesso è proprio da loro che arriva la richiesta di essere operativi la domenica”.
Un pensiero condiviso da Massimo Moretti, presidente di Cncc Consiglio Nazionale Centri Commerciali: “Il numero relativo alla perdita dei posti di lavoro per le chiusure domenicali è impressionante: stimiamo almeno 40 mila addetti, quattro volte l’Ilva per intenderci. Calcolando gli occupati dei centri commerciali (553mila escluso l’indotto) diviso per i 7 giorni della settimana, arriviamo a circa 80mila occupati al giorno. Considerando le ottimizzazioni e gli straordinari la nostra stima è verosimile ... forse sottostimata. I soggetti interessati saranno soprattutto i più deboli sul mercato del lavoro -donne e giovani- che perderanno posti vicino a casa. Un altro dato importante è quello relativo ai consumi, che, pur non ancora tornati ai valori pre-crisi del 2007, con la liberalizzazione hanno segnato un + 3% frenando, nei primi anni, l’effetto crisi. È chiaro che, in una fase debole come quella registrata da inizio anno, esiste il rischio di un effetto negativo violento”. Cui prodest allora la chiusura? Per Cncc ad avvantaggiarsi saranno solo gli operatori dell’online, anche se si parla di uno stop alle consegne della merce acquistata.
Per Centromarca, l’ipotesi alla quale lavora il Ministro Luigi Di Maio va contro i principi del libero mercato. “Soprattutto nel tempo presente, in cui le vendite online permettono di fare acquisti 24 ore su 24, e 7 giorni su 7, introdurre vincoli alle aperture distorce la concorrenza e mette i negozi fisici in una situazione di svantaggio. È antistorico vietare le aperture: queste scelte di retroguardia non favoriscono la crescita del Paese e sviliscono l’impegno delle imprese a favore della libertà di scelta dei cittadini. Va anche ricordato che stiamo vivendo una fase di stasi dei consumi ed è paradossale che si pensi a provvedimenti che frenano gli acquisti”.
Allarmata anche Ancd-Conad. La catena guidata da Francesco Pugliese bolla il provvedimento come una soluzione fortemente limitante della libertà d’impresa e dei consumatori: “Si stima che oggi siano circa 19,5 milioni gli italiani che approfittano dei giorni festivi per fare acquisti, i quali verrebbero i privati di un servizio di grande utilità. A questi effetti va sommato l’impatto non positivo che la misura avrebbe sugli occupati della gdo, circa 450 mila addetti, oltre l’indotto. Stupisce che in un momento di difficoltà economiche le organizzazioni dei lavoratori non mostrino preoccupazione per una proposta che mette a rischio migliaia di posti di lavoro”. Un’altra contestazione riguarda la possibilità di affidare alle Regioni il compito di regolamentare orari e giorni di chiusura: “Una soluzione che avrebbe come diretta conseguenza il peggioramento del quadro normativo già frammentato e uno dei principali ostacoli allo sviluppo economico nostro Paese”.
Mario Gasbarrino, presidente e Ad di Unes Supermercati (Finiper), chiede di non riportare indietro le lancette della storia. “Non stiamo parlando di una priorità per il Paese. In Europa, ben 16 Stati su 28 hanno adottato la liberalizzazione e noi torneremmo indietro; perché ormai fare la spesa la domenica è un’abitudine consolidata per 19 milioni di italiani. Dopo essere usciti dal Medioevo grazie alla legge Monti del 2011 vogliamo tornare indietro?”. Per altro Unes, rispetto al 2011 ha incrementato il numero di domeniche aperte da due a cinque. “Si tratta di una scelta aziendale che facciamo di anno in anno, non imposta dall’alto. C’è gente che fa la fila per lavorare la domenica, perché quei 200 euro in più a fine mese su uno stipendio da 1.100-1.200 euro non sono pochi. Non c’è un’imposizione, c’è la rotazione”.
In controtendenza Eurospin. “Siamo coscienti che questo potrebbe comportare nel breve periodo un piccolo disagio per una parte dei nostri clienti, che oggi possono frequentare liberamente il loro Eurospin sette giorni su sette -spiega in una nota la società-. Chiudere la domenica si tradurrebbe anche per Eurospin in un danno economico, ma siamo convinti che l’iniziale diminuzione delle vendite sarà presto compensata dall’apertura di nuovi negozi, che creeranno nuove opportunità di consumo e nuovi posti di lavoro, come è sempre stato in questi nostri 25 anni di storia”.
Stefano Bassi, presidente di Ancc-Coop, tiene aperta la finestra del dialogo. “Già nelle settimane scorse, a luglio, avevamo dichiarato di essere disponibili ad un esame di proposte per una nuova regolamentazione nazionale del tema delle aperture domenicali e festive. Per questo siamo pronti al confronto. L’obiettivo deve essere quello di trovare soluzioni equilibrate per continuare a garantire il servizio ai consumatori, l’occupazione e il rispetto dei diritti del lavoro, la salvaguardia di importanti festività religiose e laiche”.