Dopo la spinta del primo anno pandemico, quando le chiusure di ristoranti e altri luoghi di consumo hanno spinto i consumi dei retailer, il trend è proseguito anche nel corso del 2021. Secondo “l’Osservatorio annuale sulla gdo italiana e internazionale a prevalenza alimentare”, curato dall’area Studi di Mediobanca, nello scorso esercizio i grandi retailer internazionali quotati hanno visto crescere le vendite del 3,6%, con effetti molto positivi sui margini industriali (+13,1%) e sul risultato netto (+16,3%).
Il digitale spinge le vendite
La spinta maggiore arriva dal canale online, che ha vissuto un vero e proprio boom (+50% circa) arrivando a toccare l’8% del fatturato complessivo, un dato sensibilmente superiore al 3% registrato in Italia. Numeri destinati a crescere ulteriormente alla luce dell’evoluzione delle abitudini di consumo, accelerata dall’esperienza pandemica. Spingendo sul commercio elettronico, sottolinea lo studio, i retailer possono ottenere diversi vantaggi, come minori perdite rispetto all’home delivery nel caso in cui il cliente scelga di ritirare autonomamente la spesa in negozio (il cosiddetto click & collect) oppure quando la preparazione degli ordini viene affidata ad una terza parte. “Le insegne -sostengono gli analisti di Mediobanca- possono ottenere un miglioramento dei propri margini addebitando costi aggiuntivi ai clienti”.
Walmart in testa per fatturato
Esselunga spicca per redditività
Se si prendono in considerazione le vendite per metri quadrati, Esselunga si conferma leader internazionale (15.300 euro), davanti ai britannici J.Sainsbury e di W.M.Morrison.
Il report contiene anche un ulteriore approfondimento internazionale (30 i player analizzati contro 116 aziende italiane), con la classifica per fatturato che vede in testa Walmart con l’equivalente di 453 miliardi di euro. Gli operatori internazionali sviluppano il 17% del loro giro d’affari in punti di vendita all’estero rispetto al loro Paese d’origine: la maggiore proiezione internazionale è dell’olandese Ahold Delhaize (79%), seguita dalla Jeronimo Martins, che vende soprattutto in Polonia (75,5%), e dalle francesi Carrefour (51,7%) e Auchan (47,3%). Il panel internazionale esprime un Roi (ritorno dell’investimento) medio nel 2020 pari al 9,4%, in aumento rispetto all’8,8% del 2019, ma in calo rispetto al valore medio 2016-2018 (9,8%).
La classifica per Roi comprensiva dei retailer internazionali e di quelli italiani vede alternarsi nelle prime cinque posizioni società statunitensi e discount italiani: al primo posto la statunitense Publix S. Markets (22,9%), seguita dall’italiana MD (22,7%), da un altro noto retailer statunitense come Target (21,9%), dall’italiana Eurospin (20,2%) e per finire il discouter made in Usa Dollar General (17,6%). Da sottolineare che Lidl Italia segna un Roi (13,4%) superiore a quello della casa madre tedesca Lidl Stiftung (11%).
Sostenibilità: diversità di approccio
Un tema caldo per tutti gli ambiti dell’economia è l’approccio alla sostenibilità. Mediobanca rileva che le imprese della gdo trattano diffusamente il tema dall’interno di sezioni dedicate dei propri siti internet. La differenza tra le società estere e quelle nazionali è evidente se si considera la redazione di un report sociale o di sostenibilità: totalitaria tra le prime, solo nel 56,3% dei casi per le seconde, seppur in aumento di 9,2 punti percentuali rispetto all’anno precedente. Secondo l’Osservatorio di Mediobanca, le aziende del nostro Paese mostrano un certo ritardo anche per quel che concerne la misurazione analitica.
Le differenze nelle risorse umane e l'impronta ambientale
Per quanto riguarda gli addetti, a fronte di una forza lavoro femminile complessiva simile (62,9% in Italia, 58,3% all’estero), il divario aumenta per le posizioni manageriali: all’estero la quota sfiora il 40%, in Italia si ferma al 17%. Mentre, sul fronte ambientale, la quota di rifiuti differenziati si ferma al 67,7% in Italia contro il 72% all’estero. L’impegno profuso dai retailer stranieri per ridurre l’impatto ambientale ha portato a risultati più soddisfacenti rispetto a quanto fatto da quelli italiani: le società estere hanno ridotto l’intensità energetica del 12,9% e quella carbonica del 12,1%, quelle nazionali rispettivamente del 5,5% e del 6,6%