Ogni anno l’Oxford Dictionary decreta la cosiddetta “Word of the Year”, la parola/neologismo dell’anno che meglio riassume l’essenza stessa dei passati 365 giorni. Viste le vicissitudini che si sono avvicendate nel 2020, il lavoro è risultato alquanto complesso nell’individuare una singola parola, tanto che il team di lessicografi incaricati per il lavoro hanno optato per una dozzina di termini presentati nel rapporto “Words of an Unprecedented Year”. Tra queste parole, ve ne sono alcune molto significative relative alla tecnologia ("Zoombombing", "Zoom-ready", "Zoom-friendly”, “Unmute”) e all’overload informativo, degenerato ulteriormente dall’infodemia legata alla pandemia, che ha portato le persone al cosiddetto “Doomscrolling o Doomsurfing” (ovvero la tendenza a continuare a scorrere o a navigare alla ricerca – quasi compulsiva – di cattive notizie, scoraggianti o deprimenti), e vivendo in un continuo “Blursday”, giorno “indefinito”, in quanto si è persa la cognizione del tempo e dell’azione.
Questi termini che si inseriscono appunto all’interno di un contesto di information overload per cui si dipana un’incapacità cognitiva di restare al passo con tutte le informazioni che si hanno a disposizione, e che impatta in termini psicologici, facendo in modo di vivere in un perenne stato di FOMO (Fear Of Missing Out). In questo panorama il “Signal to noise ratio”, ovvero il rapporto tra segnale (patrimonio informativo interessante per un soggetto) e rumore (ciò che è ridondante e inutile), si fa sempre più un elemento determinante per riuscire davvero a raggiungere un qualsiasi tipo di pubblico, con l’obiettivo di “governare” e gestire il più possibile l’overload informativo ambientale che si frappone nel rapporto due soggetti, come ad esempio, tra azienda e clienti.
Il punto è chiedersi se si può reindirizzare la tecnologia verso la ricerca di soluzioni a problemi che in buona parte sono stati creati e amplificati dalla stessa tecnologia. Infatti, anche i segnali di informazioni rilevanti possono emergere in un numero così cospicuo da non migliorare una situazione di overload informativo. In tal senso, bisogna intervenire con dei filtri, che possano trovare l’informazione più rilevante e proporla. Nell’ambito delle tecnologie esistenti che potrebbero, allora, cambiare le regole del gioco nella battaglia tra segnale e rumore vi è l’intelligenza artificiale. L’AI ha, infatti, tutte le caratteristiche per diventare il più potente filtro tecnologico mai inventato prima e inondare le nostre vite di segnale e di informazioni rilevanti. È già una realtà oggi quella di sistemi di raccomandazione che sfruttano l’AI: da Spotify a Netflix, si fa a gara per conoscere i gusti dei clienti meglio di chiunque altro, personalizzando i risultati di ricerca. L’intelligenza artificiale, tuttavia, può spingersi anche molto oltre, creando filtri tecnologici che non solo conoscono i gusti personali dell’utente, ma che sono in grado di creare dal nulla contenuti unici per quel momento e quella persona. Bisogna, allora, fare in modo che, prima che qualsiasi cosa sia segnale, l’intelligenza artificiale venga applicata in maniera diversa per innescare meccanismi più “umani”, che evitino l'Information fatigue syndrome, prediligendo calma, qualità e bolle informative. La soluzione è, quindi, quella di disegnare e costruire tecnologie che permettano di rallentare in una società che non fa altro che accelerare, ritornando a puntare l’attenzione su linguaggio e conversazione, che garantiscono il tempo necessario per elaborare le informazioni e aggiungono pause tra un’informazione e l’altra. Esiste già un tipo di tecnologia basata sulla conversazione: si chiama “intelligenza artificiale conversazionale” (Conversational AI) e può essere la base di un nuovo modo, più sano, di approcciare e utilizzare le informazioni. Tale approccio non mette in ogni caso in discussione l’efficienza e l’efficacia dell’AI che, grazie alla tecnologie di machine learning e deep learning, riuscirà ad apprendere in maniera sempre più puntuale e in tempo reale, processando enormi quantità di dati, e migliorando così progressivamente le proprie prestazioni e capacità di comprensione. Questo porterà progressivamente a rendere più evidente la differenza tra agenti conversazionali e chatbot: i primi riescono maggiormente nella capacità di empatizzare con l’utente, ed è proprio l’empatia la chiave di volta che permette l’ingaggio dell’utente e l’aumento della produttività.
Come è evidente prevedere, la tecnologia dell’intelligenza artificiale conversazionale trova corrispettivi applicativi in quello che è il Marketing Conversazionale, per il quale i brand devono raggiungere clienti e prospect nei luoghi digitali dove si svolge la reale conversazione tra le persone, ovvero principalmente le app di messaggistica. Infatti, la vera sfida sta nel comprendere, agire, calare le strategie lì dove sono attive le conversazioni tra le persone (come le app di messaggistica, appunto). A questo proposito, essere nei luoghi della conversazione significa lasciare alle persone esprimere interessi, esigenze e bisogni, che contribuiranno a modellare l’immagine dell’azienda e la sua value proposition. È bene sottolineare che il potenziale del messaging non riguarda solo la pubblicità, ma investe la dimensione più ampia della relazione, contribuendo a stabilire un legame intimo, personale, diretto tra brand e clienti.
Per raggiungere questi scopi si stanno muovendo sul mercato una pletora di agenti che offrono soluzioni più o meno innovative. Tra questi vi è, per esempio, una realtà come Sistem-Evo, che porta gli strumenti di IA nelle PMI con soluzioni tecnologiche all'avanguardia volte accelerare il business e i servizi, adatte anche alle piccole realtà, andando oltre i chatbot tradizionali. Stefano Mancuso, General Manager di Sistem-Evo S.r.l., sottolinea come “Secondo una recente ricerca di Gartner, oggi, l'utilizzo degli assistenti virtuali da parte delle aziende è pari all’8% e si prevede che raggiungerà il 25% nel 2021 e il 60% nel 2025. Sistem-Evo con le sue innovative soluzioni tecnologiche è pioniere di questo trend in un’ottica di ‘democratizzazione dell’Intelligenza Artificiale’ affinché l’IA possa raggiungere tutte le realtà, incluse le aziende più piccole”.
Tuttavia, come già ribadito, bisogna andare al punto del problema e trovare attori tecnologici che abbiano una vision di futuro non solo orientata all’oggi, ma che permetta di affrontare il sovraccarico informativo e fare discernimento. In tal senso, Indigo.ai, studio di Conversational AI che progetta e costruisce assistenti virtuali, offre una lista in cinque punti che offrono degli spunti per vedere nell’AI conversazionale un mezzo per differenziarsi sul mercato, gestendo l’information overload: 1. Lentezza; 2. Gradualità; 3. Sincronia; 4. Pazienza; 5. Sperimentazione. Si tratta di caratteristiche che ricalcano le dinamiche naturali umane a cui bisogna ritornare dopo la spersonalizzazione che una poco accurata (in termini di fretta e consapevolezza) trasformazione digitale sta apportando.
Si sa che la conversazione è una “tecnologia” molto antica, e che intavolare una vera conversazione al di là di quanto previsto dagli script programmati è una sfida ambiziosa. Ciò si rispecchia nelle nuove funzionalità che stanno facendo diventare sempre più reali aspetti come la comprensione di dialoghi dinamici reali, l’argomentazione basata su conoscenze, contesto e personalizzazione per attribuire un senso a enunciati linguisticamente incompleti oppure ambigui, oltre ad API (Application Programming Interface) semantiche per collegarsi ad altri servizi e consentire l’orchestrazione tra fonti diverse e l’interazione con ulteriori assistenti virtuali di terze parti. In questo contesto, quindi, il vero valore aggiunto per questo momento storico sarà puntare sul poter utilizzare tali tecnologie per far riappropriare le persone di dinamiche e tempi che valorizzino i processi del modo di pensare umano.