![Cristina Lazzati Cristina Lazzati](https://static.tecnichenuove.it/markup/2022/12/Senza-nome-e1673254448429-696x461.jpg)
In un contesto sociale dove diversità ed equità stanno spesso nella stessa frase, l’inclusività non è più una scelta etica opzionale: è una leva strategica, un acceleratore di innovazione e crescita per le aziende che scelgono di guardare oltre i confini tradizionali del talento. Eppure, c’è una parte del potenziale umano che rimane spesso invisibile, ignorata o sottovalutata: carcerati, esuli politici, persone con disabilità. Categorie a margine, considerate troppo spesso solo in base alle difficoltà che comportano, ma che, in realtà, possono rappresentare una risorsa inestimabile sia per le organizzazioni sia per la società nel suo complesso. Includere non significa fare beneficenza. Significa creare un ecosistema in cui il talento, l’impegno e la capacità di resilienza possano emergere indipendentemente dal percorso di vita. Significa riconoscere che chi ha vissuto l’esperienza del carcere, dell’esilio o delle barriere quotidiane dovute a una disabilità ha sviluppato capacità uniche: un senso di adattamento fuori dal comune, una determinazione feroce a dimostrare il proprio valore, una creatività capace di superare limiti apparentemente invalicabili.
Parliamoci chiaro: l’inclusione di categorie vulnerabili non è priva di ostacoli. Richiede investimenti in formazione, mentorship e infrastrutture. Richiede anche un cambio di mentalità che non sempre è immediato, sia nei vertici aziendali sia nei team operativi. Ma proprio qui risiede la forza trasformativa dell’inclusività: affrontare queste difficoltà significa costruire una cultura aziendale più aperta, resiliente e capace di gestire la complessità. Le aziende che hanno il coraggio di misurarsi con queste sfide scoprono che non si tratta solo di “fare del bene”. Si tratta di fare meglio: di diventare organizzazioni più forti, più innovative, più capaci di rispondere alle aspettative di un mercato e di una società in rapida evoluzione. Non è un caso che i brand che investono in politiche inclusive siano anche quelli che registrano performance migliori nel lungo termine. Perché l’inclusività non si limita a portare benefici interni, ma ha un impatto anche sulla reputazione aziendale, rafforzando la fiducia dei consumatori e degli investitori. Includere non significa ignorare le difficoltà, ma affrontarle con pragmatismo e visione. Ogni sfida superata con successo diventa un esempio di leadership, un messaggio potente per il mercato e per la società: che ogni persona ha un valore, che nessun talento deve andare sprecato, che il vero progresso è quello che include tutti. L’inclusività non è solo un dovere morale: è una strategia vincente e la domanda che dobbiamo porci non è “perché includere?”, ma “cosa stiamo perdendo se non lo facciamo?”