Gli scorsi mesi estivi del 2022 hanno fatto emergere sui social media un nuovo trend che vuole descrivere un fenomeno sempre più diffuso nel mondo del lavoro. È riassumibile con l’espressione inglese “Quiet Quitting”, traducibile in "abbandono silenzioso”/”dimissioni silenziose"), il cui relativo hashtag ha spopolato in primis su TikTok raggiungendo oltre 9 milioni di visualizzazioni.
Premettendo che non vi è una definizione univoca dietro l’espressione Quiet Quitting, è forse più intellettualmente onesto cercare di collocare il fenomeno al crocevia delle spettacolarizzazioni date dalle difficoltà connesse alla pandemia e dalla Great Resignation, per cui era stata registrata un’impennata – con annesso effetto domino dagli USA a buona parte del mondo occidentale – di dimissioni da parte di lavoratori insoddisfatti del proprio status quo, anche a fronte delle esperienze traumatiche che il Covid-19 ha imposto. Insomma, una scusa/opportunità da cogliere al volo per cambiare vita, da cui – diversi mesi dopo – alcuni hanno fatto retromarcia, mentre altri hanno trovato una loro nuova dimensione. Fatte tali premesse, si può affermare che il concetto di Quiet Quitting respinga di per sé, quindi, gli estremismi del “mollo tutto e cambio vita” e, secondo taluni, sarebbe l’inserimento di un “pilota automatico” per cui si tratterebbe di svolgere il minimo indispensabile richiesto dal proprio mansionario e per cui si è effettivamente pagati, senza cedere ai sensi di colpa e/o al “ricatto morale” più o meno esplicito in un certo tipo di ambienti per cui se non si fa sempre di più di quello richiesto (accettando anche straordinari, mail/telefonate in orari fuori dal lavoro – per la maggior parte delle volte non retribuiti) connotano il lavoratore come a basso valore aggiunto nel lungo termine. Il non volere “immolarsi” per il posto di lavoro è sempre qualcosa che – specialmente in un ecosistema socio-economico come quello italiano – potrebbe giustificare il non riuscire a “fare carriera” o semplicemente tenersi il posto di lavoro.
Engagement, questo sconosciuto
Tuttavia, dietro il Quiet Quitting vi è di sicuro da leggere in prospettiva una forma di disagio, acuita dall’attuale congiuntura, ma che ha radici più profonde da andare a cercare. Jaya Dass, direttore generale di Randstad per Singapore e Malesia, ad esempio, descrive il Quiet Quitting come un "impatto residuo" del Covid-19 e delle Grandi Dimissioni, in cui i dipendenti si sono sentiti autorizzati a riprendere il controllo della propria vita lavorativa e personale. Per altri, si tratta di una fase precedente o post burnout in cui si cerca di andare avanti con il minimo di energia a disposizione, che per forza di cose non contempla il sentirsi soddisfatto per quel che riguarda il proprio benessere e senso di appartenenza e scopo. A riprova di ciò, il report “State of the global workplace 2022” di Gallup evidenzia come in Europa solo il 14% dei dipendenti è davvero coinvolto nella propria attività lavorativa. Oggi solo il 21% dei lavoratori si sente (engaged), e solo il 33% si sente appagato (in termini di well-being) a fronte di una stra grande maggioranza che prova mancanza di fiducia nel futuro e vive nello spettro di un subitaneo possibile fallimento.
A onor del vero, bisogna aggiungere come questi ultimi anni (con la ciliegina sulla torta della pandemia) stanno segnando una battuta d’arresto per la cosiddetta “hustle culture”, per cui il lavoro deve essere lo scopo dell’esistenza ed essere sempre affaccendati e produttivi sia l’espressione più importante del valore di un lavoratore.
Uno dei TikTok diventati virali e che possono essere una sorta di “manifesto” delle istanze del Quiet Quitting è di Zaid Khan, ingegnere ventenne che abita a New York. Nel video, lui stesso definisce il fenomeno con queste parole: "Si continua a svolgere i propri compiti, ma non si aderisce più alla cultura della competizione verso se stessi e gli altri, secondo la quale il lavoro deve essere la nostra vita". Ed infine: "Il tuo valore come persona non è definito dal tuo lavoro".
Il messaggio è, quindi, quello di smettere di identificare la persona con la sua produttività, punto di vista totalmente fuori dai canoni di Late Millennial e Gen Z, che si dice essere il numero più elevato di Quiet Quitter.
Un ulteriore spunto interessante è fornito da un articolo dello scorso 31 agosto 2022 dell’Harvard Business Review (HBR) sostiene che Quiet Quitting sia un’etichetta nuova per un fenomeno vecchio e connesso all’incapacità dei manager di creare condizioni adeguate, di modo che il posto di lavoro sia quello dove si voglia fare il più possibile (“Work environment is a place where people want to go the extra mile”).
L’HBR cerca poi di dare dei consigli ai manager su come gestire i Quiet Quitter, ricominciando dalla fiducia e da una chiara definizione degli obiettivi di crescita.
L'universo valoriale oltre il reddito
A questo punto, bisogna bloccare possibili critiche di benpensanti che ritengono che soprattutto le nuove generazioni non abbiano più spirito di sacrificio come un tempo, e non abbiano voglia di impegnarsi e “fare gavetta”, indipendentemente dalle situazioni metadoniche che eventuali sussidi statali alla disoccupazione potrebbero causare. Inutile ricordare che rispetto anche solo a 20 anni fa, lo scenario globale – anche in presenza di un lavoro non per forza di basso profilo - non restituisca le stesse opportunità (se non addirittura speranze) e prospettive di raggiungere una soddisfazione lavorativa e reddituale pari o superiore a quella delle generazioni precedenti, così come era avvenuto in maniera più o meno lineare fino agli anni Novanta. Ciò, molto spesso è dovuto anche ad un atteggiamento da parte di un certo tipo di classe dirigente (non leader in senso stretto, perché non “illuminata”) incapace di instillare senso di appartenenza, e più in generale il tanto fondamentale employer engagement che davvero faccia rendere nei fatti – e non solo a parole – dipendenti e collaboratori parte di un team in crescita e non mercenari alla sfida della sopravvivenza in un ambiente tossico. Vero è che i Late Millennials e Gen Z hanno un assetto valoriale che è – per forza di cose – diverso rispetto da quello delle generazioni precedenti e che certi atteggiamenti e aspettative possano apparire distanti e disorientanti rispetto al lavoratore standard di qualche anno fa. È presente una predilezione per la crescita personale e per modalità di lavoro flessibili che permettano di trovare un equilibrio tra lavoro e vita privata, prioritizzando spesso il valore del tempo (libero e/o da gestire in autonomia sul lavoro) ai soldi, seppur ovviamente molto importanti. Si tratta di trovare un equilibrio, per generazioni che fin da prima di entrare nel mondo del lavoro non hanno mai smesso di sentire la parola crisi, accompagnata da una pletora di diversi aggettivi (immobiliare, economica, climatica, umanitaria, sanitaria, militare, ecc.), associata alla maggior parte degli ambiti della loro vita. Certo è che fattori come la digitalizzazione (da tutti i device fisici al metaverso) rappresentano opportunità che – tra luci ed ombre – segnano ancor di più un punto di non ritorno tra prima e dopo, e che spingono ad una ricerca di soluzioni che siano sempre più convenienti e abilitanti dal punto di vista competitivo.
In conclusione, si potrebbe leggere il fenomeno del “Quiet Quitting” come una richiesta di consapevolezza da parte di chi ha responsabilità aziendali a ridefinire quelle che sono le “regole del gioco”. Rendere il lavoro qualcosa che nobiliti l’uomo, e non lo soggioghi a nuove forme di schiavitù moderna (fisica e psicologica), più o meno manifesta.