La creatività attraverso l'advertising di ogni genere, da sempre, permette alle persone di esplorare. Il cortometraggio Welcome Home, diretto da Spike Jonze per Apple, mostra come abbiamo bisogno di tuffarci fuori dal quotidiano, dal presente e dal possibile per esplorare il mondo del non plausibile. Jonze illustra un viaggio immaginario portandoci dentro lo specchio di Alice, in una simulazione di danza con sé stessi, che è quello che facciamo ogni volta che siamo catturati in una spirale di suggestioni. Del rischio verso il quale ci possono portare le storie, parla un libro di Gianni Celati “I lettori di libri sono sempre più falsi” in cui la coprotagonista percepisce un fremito di paura in quello che c’è tra le righe, finché non cede con abbandono ai romanzi. Ogni storia che si fa immagine nella nostra mente ci offre l’occasione di abbandonare la realtà circostante per farci cadere nella spirale di subuniversi alternativi, dove testare lati dormienti della nostra personalità e arricchire la nostra esperienza percettiva. Un salto che crea in noi intensi fremiti di paura, perché qualunque trasformazione del punto di vista, qualunque nuovo viaggio sensoriale, comporta delle conseguenze. Anche il mondo della comunicazione crea delle enclave per trascinarci in un’esperienza capace di spostare la nostra prospettiva, ampliando il nostro archivio di possibilità.
Percepire al di fuori del noto con la creatività
Stupore e piccoli shock sono nutrimento per il nostro percorso di sviluppo, soprattutto se sono occasioni di esplorazione libera. Se il tempo di attenzione, ci dice Google, è di circa 7 secondi, non sarà possibile sfruttare i tempi del percorso retorico necessari per immergersi lentamente in un punto di vista alternativo (subuniverso). La frase “non vediamo le cose come sono, ma come siamo”, attribuita al Talmud babilonese e riproposta in varie forme da Immanuel Kant, Carl Gustav Jung e Anais Nïn, ci ricorda che la nostra capacità di vedere la realtà possiede i limiti della nostra esperienza. Allo stesso tempo, più si allarga l’esperienza, più noi siamo e più vediamo le cose in maniera allargata. La pubblicità ha storicamente, attraverso la creatività, ampliato le possibilità di percepire al di fuori del noto e allenato l’immaginazione. “I grandi maestri, tra i miei cito certamente Gianpietro Vigorelli, ma prima anche Armando Testa, cercavano nuove sintesi visive, capaci di sorprendere -sottolinea Vincenzo Celli, copywriter oggi freelance che ha collaborato in passato con Saatchi & Saatchi, 1861 United ed è stato direttore creativo per Armando Testa Milano-. Si è ingaggiati quando qualcosa ti impone di risolvere un enigma, di riempire degli spazi. L’arte pubblicitaria ha la funzione di giocare con l’intelligenza, che è sensibilizzata e intrattenuta e questo fa sentire migliore chi riceve il messaggio”.
In questo senso, il gioco creativo può abbassare o alzare l’asticella del potenziale dell’individuo, a seconda che cerchi pigramente la sua zona di comfort o decida di sfidarla. “Le illusioni ottiche, le forme ibride, come quelle delle matite Faber-Castell, i giochi stereoscopici di lettering del video Perspective, creato da 1st Avenue Machine per Apple, ma anche le forme che nascono nel trucco tra figura e sfondo che Coca-Cola fa con il bianco e il rosso del suo logo, impegnano in maniera originale lo spettatore e non c’è nemmeno bisogno del prodotto, nasce una relazione diretta degli immaginari. Oggi è più difficile vendere questo tipo di prodotto, perché i clienti sono più affascinati dalla certezza percepita offerta dai dati, per quanto anche questi siano ambigui e interpretabili, mentre l’effetto della creatività non è facilmente misurabile”. Lo è però forse socialmente, se riteniamo il prodotto creativo fonte di empowerment sociale.
Storytelling e neuroscienze
Spesso l’istinto narrativo che appartiene a ogni essere umano è orientato verso funnel che inducano a un risultato o a un’azione, che non sempre è creativa ed è troppo spesso basata su decisioni in ambito binario. Lo storytelling e i suoi elementi di ingaggio sono studiati dalle neuroscienze per creare prodotti, come nel caso di Neurofashion, che vede l’abito come oggetto magico che riempie il divario tra chi siamo, come ci percepiamo e chi vorremmo essere: lo slogan Dress the Gap riporta a quel concetto di necessità di riempire gli spazi vuoti che si rifanno alla biopoetica prima ancora che alle neuroscienze. Ma l’esigenza di riempire i vuoti, di leggere tra le righe, di interpretare gli spazi, va forse lasciata al divertimento dello spettatore. Il motore di ogni narrazione è il conflitto e le stesse illusioni percettive (siano ottiche, uditive, sensoriali) sono di per sé un conflitto che si crea tra realtà e percezione, tra diverse parti del cervello che cercano di contrattare una soluzione. Ma è un conflitto in cui lo spettatore mantiene la sua agency, la possibilità di intervenire sulla realtà, di utilizzare il proprio potere attingendo alla creatività, fosse anche per il problem solving. Anche la partecipazione a prodotti di gamification o a chat di gruppo sono enclave che se sfidanti intrattengono e potenziano, ma anche qui ci vuole garbo creativo. L’importante è dichiarare che si tratta di un momento di fiction, distinto dalla realtà e dichiarare le simulazioni (ad esempio se tra i membri della chat intervengono affective chat bot), anche se distinguere reale e virtuale può essere sempre più difficile, visto che i momenti di aggregazione avvengono sempre più su device: ma le relazioni virtuali non vanno confuse con le relazioni reali. Sarà questa la grande sfida passando al Metaverso e a realtà virtuali in cui la distanza tra immaginazione e percezione, grazie a sistemi di embodiment e visori 3D, sarà sempre più corta, con rischi di escapismo. Soprattutto, occorre mantenere possibilità ulteriori rispetto a sistemi on-off, se si vuole offrire il vantaggio di estendere concretamente la propria realtà interiore, mantenendo l’illusione in un gioco sostenibile con il cliente (responsabilità sociale). Il pensiero immaginale mette in moto una ricerca di significato per amplificazioni, interpretazioni, suggestioni, visioni, insight. Secondo James Hillman l’immagine ridisegna il nostro modo di vedere le cose, dà estensione e insieme trasforma i confini delle categorie nelle quali spesso siamo imprigionati.