L’industria di marca: difendere la domanda a tutti i costi

Industria di Marca
Situazione economica e stato di salute delle imprese di marca italiane alla luce dei nuovi scenari geopolitici, misurati da Centromarca

Un convegno promosso da Centromarca (Confini Instabili-Scenari geopolitici, effetti sociali ed economici, opzioni per il Paese e l’Industria di marca) si è svolto a Milano e ha fatto il punto sulle decisioni e strade da prendere nel difficile contesto attuale. All’incontro sono intervenuti Paolo Mieli (giornalista e saggista), Romano Prodi (presidente Fondazione per la Collaborazione tra i Popoli), Mario Monti (presidente Università Bocconi) e Bruno Tabacci, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri. A seguire una tavola rotonda, moderata da Ferruccio de Bortoli (editorialista Corriere della Sera), cui hanno preso parte Francesco Mutti (presidente di Centromarca), Gianpiero Calzolari (presidente Granarolo), Fulvio Guarneri (presidente Unilever Italia e Middle Europe Cluster Leader) e Dario Rinero (ceo Lifestyle Design).

Con tono profetico e atteggiamento ottimistico Paolo Mieli ha parlato di un “futuro rinascimentale” che ci attende.

A proposito di produttività

“La guerra sarà lunga, ma tutto andrà a finire molto bene: pandemia e guerra ci obbligano a fare cose che non abbiamo fatto trent’anni fa con il crollo del muro di Berlino” afferma Mieli. Visione che trova parzialmente d’accordo Monti che ha sottolineato i benefici dell’integrazione europea cercata nel nuovo scenario. “A causa degli interessi mossi e del riposizionamento, la guerra non può che esser risolta con un accordo tra Cina e Usa: la Cina cresce ‘di una Russia all’anno’. Ha bisogno di farla finire perché commercia dieci volte di più con noi che con la Russia” ha sottolineato Prodi. Guardando all’economia del nostro Paese “la produttività non la possono portare avanti le 2-3 mila aziende medie. Non abbiamo più le grandi imprese e le piccole hanno una produttività estremamente bassa: devono fare il salto di qualità. Serve poi che una grande azienda straniera venga attirata in Italia: ma la Tesla va a Berlino e non viene a Torino. I problemi sono gli stessi, come le incertezze dei tempi della giustizia”. Tabacci ha ricordato che l’indebitamento delle famiglie è il più basso tra i Paesi europei e quello delle imprese sotto la media. “A settembre la Commissione europea è impegnata a presentare una proposta collettiva che riguarda non solo il tetto del gas ma anche una diversa regolazione del prezzo dell’elettricità che oggi alla Borsa di Amsterdam è condizionato dai picchi del prezzo del gas. Infine un monito sul Pnrr. “Con il Pnrr riceviamo importi semestralmente in base alle condizioni che dobbiamo rispettare e questo andrà avanti fino al 2026: se salta il Pnrr salta il Next Generation Eu. Non possiamo ripetere le esperienze negative dei fondi strutturali. Dal 2014 al 2020 erano previsti 47 miliardi, ne abbiamo impegnati 21 e spesi 4,2”.

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Francesco Mutti, presidente di Centromarca
Le proposte di Centromarca

Francesco Mutti, nella relazione introduttiva, ha focalizzato l’attenzione sugli effetti negativi dell’inflazione per l'industria di marca: preoccupa lo scenario possibile del prossimo autunno “caldo”, con costi industriali crescenti cui si affianca la perdita di potere d’acquisto delle famiglie. “La nostra priorità è fare tutto il possibile per tutelare la domanda a difesa della marca. Come Centromarca abbiamo richiesto all’esecutivo, anche di concerto con le associazione della moderna distribuzione, la sospensione dell’Iva sui beni di largo consumo, un’azione decisa sul cuneo fiscale e l’introduzione a livello Ue di un tetto al prezzo del gas. L’incremento dei costi degli input produttivi supera il 20%, l’inflazione al consumo è al 6%. Questa differenza mostra in modo evidente quanto le industrie e i beni di largo consumo hanno scaricato solo parzialmente a valle gli aumenti registrati in questi mesi”.

La frammentazione del tessuto produttivo

Fondamentali per il presidente di Centromarca, che ha invocato “un piano industriale di lungo periodo”, sono poi gli interventi per agevolare la crescita dimensionale delle imprese di marca. Una struttura così frammentata rappresenta un elemento di fragilità nella competizione internazionale. “Nel comparto industriale agroalimentare, secondo Nomisma, le imprese di marca con fatturato inferiore a 10 milioni di euro sono il 78% della numerica; oltre il 50% dell’export nazionale è fatto da appena lo 0,2% delle aziende. Oggi non c’è la possibilità per una microazienda di affrontare i mercati e fare innovazione. La digitalizzazione permette di ridurre le barriere, ma entro certi limiti”.

La sostenibilità è un costo e il consumatore si aspetta che non ricada su di lui

Un moltiplicatore per dieci

Diverse le tematiche affrontate nella tavola rotonda: innovazione, tracciabilità, sostenibilità, risparmio idrico. Sul nanismo della nostra industria di marca si è trovato d’accordo Dario Rinero (ceo Lifestyle Design. “Il settore arredamento sviluppa 20 miliardi ed esporta per 11 miliardi. Sono 20 mila imprese, la taglia media è 1 milione per impresa, con 8 addetti. Il tessuto è parcellizzato. Il 3-4% delle aziende produce il 50-60% del fatturato e l’80% dell’export. Dobbiamo cercare un moltiplicatore per dieci delle imprese: quelle che fanno 200-300 milioni sono considerate giganti, ma dovrebbero realizzare 2-3 miliardi. Occorrerebbe concentrare le risorse sulle produzioni ad alto valore aggiunto”. Un altro tema, strettamente legato, è quello degli investimenti. “La dimensione dell’impresa permette di intercettare nuovi bisogni offrendo nuove soluzioni alle nuove generazioni -ha ricordato Gianpiero Calzolari, presidente Granarolo-. C’è un eccessivo appiattimento sul prezzo in questi ultimi anni e ciò pregiudica la possibilità di mettere a fianco al made in italy l’innovazione che altri settori stanno perseguendo”.

“Continuiamo nella nostra tradizionalità, ma se il mondo accelera sotto altri profili, rischiamo di perdere questo treno”.

Evoluzione del food

L’ammonimento di Mutti è quello di non fare come l’asino bigio che rosicchia il suo cardo mentre fuori c’è la foodtech revolution. “L’evoluzione del food è molto accelerata fuori dai confini e rischiamo di arrivare tardi, in un mercato che rischia di non essere più il nostro. Continuiamo nella nostra tradizionalità, ma se il mondo accelera sotto altri profili, rischiamo d perdere questo treno”. Finita la favola del piccolo è bello (relativo alle pmi), attenzione a non dipingere la svolta green in termini solo idilliaci (basterebbe ricordare che, in base alle politiche Ue, occorre dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030 ma riuscendo nel contempo a far fronte al cambiamento climatico, aumento dei patogeni, con una popolazione che arriverà nel 2050 a dieci miliardi). “Quando si parla di neutralità carbonica in Europa non abbiamo idea della dimensione della sfida, che abbiamo davanti. Sono scale logaritmiche con un’incidenza sui costi molto rilevante. I costi saranno pesanti e il consumatore si aspetta che non ricadano su di lui”. A frenare la crescita, secondo Fulvio Guarneri, presidente Unilever Italia e Middle Europe cluster leader, ci sono anche altri elementi. “Il grosso problema sono i trasporti. È un’area su cui il Pnrr dovrebbe agire. L’Italia produce a costi molto competitivi e ha possibilità di attrarre investimenti ma ci sono tre grandi problemi. Il primo è la demografia: negli ultimi dieci anni abbiamo perso 6 milioni di italiani, sostituiti da 6 milioni di nuovi italiani. Il secondo è la trasparenza e certezza del diritto. Poi serve un aiuto contro la depauperizzazione dei consumi che c’è stata negli ultimi anni”.

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