La parità di genere continua ad essere un tema caldo e ad evolvere (forse) verso un approccio più sostanziale e pratico, che vede concretizzarsi la possibilità di certificazione per le aziende in tal senso. La sua attivazione effettiva è prevista entro la fine del 2022 e le realtà che la otterranno potranno usufruire di incentivi di natura fiscale e in materia di appalti pubblici.
Quello che per ora è già stato definito e che le imprese possono visionare è la prassi di riferimento UNI/PdR 125:202, ovvero una serie di linee guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici kpi. Sono 6, nello specifico, le aree di valutazione per le differenti variabili che contraddistinguono un’organizzazione inclusiva e rispettosa della parità di genere, ovvero:
- cultura e strategia
- governance
- processi hr
- opportunità di crescita e inclusione delle donne in azienda
- equità remunerativa per genere
- tutela della genitorialità e conciliazione vita-lavoro
Ogni area è contraddistinta da un peso percentuale che contribuisce alla misurazione del livello attuale dell’organizzazione e rispetto al quale è misurato il progresso nel tempo.
Non si tratta certo di aree tematiche nuove per le nostre pagine e nemmeno per le aziende virtuose che hanno già attivato da tempo percorsi di innovazione lato processi e cultura per implementare tali politiche. È la prima volta, però, che i vantaggi derivanti dalla loro attuazione sono riconosciuti in misura tangibile dallo stesso Governo, favorendo l'istituzionalizzazione di questi obiettivi e pratiche.
La stessa comunicazione di marca in tema di parità di genere si sta facendo più efficace, impattante e meno retorica e tradizionale nei linguaggi, lasciando trapelare o almeno sperare in un'autentica sensibilizzazione collettiva, che supera quindi il classico proclama. Un caso recente ed emblematico, che fa uso di azzeccato parallelismo per trasmettere un messaggio di equità, è la campagna #BetterWorkForWomen di Indeed, dove si domanda alle persone se sarebbero disposte ad accettare di pagare per un dato prodotto e averne poi il 16% in meno, che si tratta di un hamburger, un ombrello o un gelato (immagini in alto). Dando per scontato che la risposta più gettonata sia no, segue la domanda: "E allora perché dovrebbero (sottointeso: accettarlo) le donne?". Il riferimento (con fonte citata nell'adv) è a quel 16% di gender pay gap, ovvero di stipendio in meno, che le donne mediamente hanno rispetto al corrispettivo professionista/lavoratore maschile.