La pubblicità e più in generale la comunicazione di marca rivolta al consumatore ha ancora un significativo problema di scollamento dei suoi protagonisti dalla realtà in quanto a varietà umana e autenticità. A dirlo è un'indagine globale svolta sul tema da YouGov, che ha coinvolto nell'estate 2021 17 Paesi diversi, Italia compresa.
Alle persone è stato chiesto in che misura concordassero con l'affermazione: "Sento che le persone come me sono pienamente rappresentate dalle persone che vedo nelle pubblicità". Il risultato medio complessivo è stato che oltre 2 su 5, ovvero il 44%, ha risposto con netta negatività, confermando che non si sente assolutamente rappresentato.
Per gli italiani, nello specifico, parliamo di un dato superiore alla maggioranza (52%), superato tuttavia dal disappunto dei tedeschi (60%) e degli svedesi (59%) per il mercato europeo. Migliore la situazione in Australia e in Asia, dove comunque il cluster degli insoddisfatti resta intorno a 1 consumatore su 3.
Le insidie della diversity
Naturalmente, le differenze tra Paesi sono da leggere in alcuni casi anche in chiave di diversa maturità culturale della stessa audience su dati temi. Anche nei territori dove tuttavia diversity e inclusione sono ascese agli onori di cronaca e sono state inserite nelle discussioni di business come valore interno ed esterno alle aziende, è tempo di trattare la questione con una diversa profondità.
Uno dei grandi limiti della diversity proposta nella comunicazione di marca è infatti quello di inseguire, o spesso e volentieri rincorrere con gran ritardo, quelle che sono le tendenze calde del momento con atteggiamento palesemente strumentale: la "quota rosa" del femminile, la "quota blu" del maschile su dati temi quali la paternità, l'"eroismo" della data categoria di lavoratori che fino a ieri non esisteva ma che durante la pandemia diventa punta di diamante della società (salvo poi tornare nel dimenticatoio), ma anche l'lgbtq+ inserito come "contentino".
Paradossalmente, sarebbe tutto più semplice se invece che impegnarsi a conteggiare e a spuntare tutte le caselle del politically correct semplicemente si fotografasse il mondo per quello che è. Un esempio banale: tutti noi conosciamo almeno una persona diversamente abile, eppure ricordate una pubblicità dove il vostro amico X, magari senza una gamba o un braccio, comparisse semplicemente in quanto uomo che fa la spesa o usufruisce di un servizio? Se è vero che un settore come il largo consumo si rivolge per sua natura a tutti, perché quei "tutti" non sono presenti nella sua comunicazione?
Attenzione, però, non parliamo dello spot dove il disabile compare in quanto tale, magari in veste di campione paraolimpico o di combattente resiliente. Parliamo di uno spot in cui il disabile c'è semplicemente in quanto essere umano come gli altri, senza utilizzo specifico della sua disabilità ai fini narrativi. Lo stesso vale per l'uomo che pulisce casa o che dà il biberon a suo figlio, per la donna che non ha voglia di depilarsi e si tiene i peli sotto le ascelle e così via.
Lo stesso presentare certi elementi come eccezione sulla quale si calca la mano, come scelta volutamente emancipata, rischia di diventare un boomerang. La seconda trappola tipica dei temi di diversity e inclusione, infatti, è che si cada nel paradosso, ovvero nello stereotipo di linguaggi e toni, nella discriminazione involontaria proprio per insistenza su elementi che standardizzano volendo uscire dallo standard.