Arriviamo a Cremona nello stabilimento costruito a ridosso della ferrovia, come si usava fare a fine 800 e inizio 900, quando ancora il trasporto di merci su gomma era di là da venire. Veniamo ricevuti in un’ufficio stile anni 50, in quel noce chiaro nazionale laccato che caratterizzava il tinello e controtinello nelle sale degli italiani prima dell’avvento del soggiorno e dei relativi divani e poltrone. Antonio è vestito completamente di bianco, in tuta e maglietta, con relativo cappellino con il logo. È pronto per farci visitare lo stabilimento del provolone. È un presidente fuori dagli schemi, grondante di entusiasmo per il suo lavoro come se avesse vent’anni. Parla di getto, in modo istintivo e spontaneo, senza pesare troppo le parole, ed è un fiume di emozioni. Inizia autopresentandosi: “Sono un’entusiasta e un eclettico, essendo nato nella prima decade dei Gemelli, e per spiegare come sono vi racconto una storia. Quando vado a Napoli mi capita spesso di fermarmi ad Arezzo alla chiesa di Santa Maria della Pieve. Una volta entrai con l’auricolare mentre stavo ascoltando il Vespro alla Beata Vergine di Claudio Monteverdi, il cui Magnificat mi fa venire letteralmente la pelle d’oca. Il mio intento era di ammirare ancora il polittico di Pietro Lorenzetti. Senza rendermene conto, per l’emozione di ciò che vedevo e che sentivo, mi sono messo a cantare ad alta voce “Magnificaaat ...” al che sono arrivati due addetti, che essendosi resi conto che non ero un pazzo, mi hanno pure offerto un caffè. Con questo voglio dire che per me l’emozione è tutto. Io, quando vedo un’opera d’arte, quando sento certe musiche, quando ascolto una poesia, ma anche quando vedo il formaggio in produzione, provo sempre una grande emozione. L’emozione ce l’hai o non ce l’hai. Io, per fortuna, ce l’ho.”
Qual è l’antico segreto di Gennaro Auricchio che lei custodisce?
Semplice: il vero segreto è che per noi è determinante occuparci dei nostri prodotti sin dalla produzione. Non si tratta di un vezzo, ma di una vera mission, perché abbiamo uno stabilimento per ciascun formaggio e in ciascuna produzione mettiamo tutto l’amore sviscerato per i prodotti realizzandoli con passione certosina e cura dei particolari. Questa è l’idea cardine che unisce noi tre fratelli e che ci ha consentito di tenere alta la qualità della produzione. Dopo 140 anni il nostro provolone è percepito come “diverso”: noi non diciamo “migliore” perché è il consumatore che deve giudicare, ma sino a ora la storia ci ha riconosciuto unicità e distintività.
A proposito dei tre fratelli, come vi dividete i compiti?
Io mi occupo di produzione, investimenti e acquisti, in particolare del latte, che in un’azienda casearia pesa anche più del 75% della spesa dell’azienda. Essendo il fratello maggiore sono il presidente dell’azienda. Alberto, il più giovane, è quello che gira per il mondo occupandosi di marketing e commerciale. Giandomenico si occupa dell’amministrazione e finanza, ma anche dei rapporti istituzionali, avendo ricoperto cariche istituzionali come vicepresidente di Confindustria e presidente di Federalimentare. Oggi ricopre funzioni di vertice in ambito camerale.
Quali gli investimenti fatti negli ultimi anni?
Negli ultimi otto anni abbiamo investito molto, soprattutto nell’ammodernamento degli
impianti e delle strutture per far sì che tutti i nostri otto stabilimenti produttivi fossero al passo con gli standard di un mondo così vasto e globalizzato in cui la qualità è fondamentale, una qualità omogenea per tutti i prodotti in portafoglio. Noi siamo attentissimi anche ai particolari ed è lì che spendiamo di più.
In particolare cosa vi è costata l’operazione Usa di acquisto del distributore?
Una cifra importante: un’operazione che ha impegnato molto me e i miei fratelli, ma che era imprescindibile per noi. Così come per la produzione, poter gestire direttamente la
commercializzazione in un mercato così importante per noi come quello statunitense era un passo da fare e siamo orgogliosi del successo raggiunto. Già nel 1977 avevamo avviato una sussidiaria negli Usa, un’iniziativa davvero visionaria per allora. Del resto il nostro provolone è presente in quel mercato sin dalla fine dell’ottocento quando i nostri connazionali emigranti lo portavano con sé anche come simbolo di attaccamento alla terra natia. Sin da allora mio nonno e poi mio padre hanno sempre esportato il nostro provolone. Oggi la quota di export in Usa è strategica quindi dovevamo tornare ad avere una presenza commerciale diretta.
È dunque così importante produrre in Italia?
Le rispondo con una storia: un giornalista americano mi chiese come mai il nostro formaggio fosse così diverso da quello locale. Si spinse a dire anche “più buono”. Risposi che c’e una cosa sola che gli americani non possono avere: la storia che connota l’Italia. In un pezzo di formaggio creato dal lavoro di un italiano, senza che questi se ne renda conto, agisce la cultura stratificata di secoli e almeno duemila anni di storia. Qualcuno pensa che molti formaggi tipici della tradizione italiana si possano fare all’estero, esportando il nostro know how. In realtà, non si può esportare la storia, che è parte indissolubile dell’essere italiani e grazie alla quale nel produrre si riesce a fondere passione, tradizione, artigianato in un mix unico e riconosciuto nei mercati globali.
Auricchio: i formaggi sono storia
Affermare l’unicità dei formaggi Made in Italy nel mondo. Questa, dopo 140 anni, è ancora la mission di Auricchio Spa, l’impresa cremonese nata nel 1877 a San Giuseppe Vesuviano (Na), grazie al trisavolo Gennaro (da Mark Up n. 263)