Sembra che la fase più acuta della crisi sia passata, anche se il futuro è pieno di incognite. Cosa ne pensa?
È la fiducia la parola d’ordine del 2017: è la fiducia che muove il mondo, le imprese e le relazioni umane, mica la matematica. L’economia è figlia della fiducia: se c’è, vanno bene i consumi, migliorano le relazioni e il business, ma se cade, si entra in un clima di caccia alle streghe, di presunzione di disonestà collettiva, un Medioevo tragico che contrappongo a un rinascimento basato sulla fiducia e sull’impegno. In questo senso, sono preoccupato per l’esito del referendum di dicembre: se vincessero i no, rischieremmo di entrare proprio in questo clima medioevale, che significa nessun impegno da parte di nessuno. Spero fortemente che gli italiani reagiscano e vogliano cambiare. Sono fiducioso come sempre ...
Fiducioso anche negli interventi che politica ed istituzioni possono fare per
realizzare i cambiamenti?
La politica è uguale a noi: anzi, siamo noi. Se non è pronta la politica, non siamo pronti neanche noi. Mi fa ridere chi parla male dei politici: sono solo un nostro specchio. C’é una questione di coscienza civica da affrontare in questo Paese, un tema centrale per capire che non avremo politici migliori se non miglioriamo noi. Già Giolitti diceva che i politici in Italia erano per il 33% uguali agli italiani, per un altro 33% peggiori e per il restante 34% migliori: bisogna che questo ultimo terzo riesca a farcela, occorre uscire da questa narrazione del lamento, che è diventata la nostra cifra, anche in Tv. Addirittura, chi parla di soluzioni diventa antipatico, ma la verità è che non vogliamo risolvere la situazione. Però noto qualche cambiamento ...
In quale direzione?
Verso il meglio, naturalmente, nel senso che non siamo messi così male. Nel suo ultimo libro “Ripensare il capitalismo” Philip Kotler spiega che, in tutti i Paesi, bisogna ragionare in termini di reddito mediano, ovvero quello che esprime la classe media, togliendo dal conteggio gli estremi, i ricchissimi e poverissimi. Con questa metodologia Kotler dimostra che oggi gli Stati Uniti occupano l’ottavo posto nel ranking mondiale, l’Italia il quinto. Crea fiducia questo, no? Allo stesso tempo, va detto che se la politica ha il compito di creare lo scenario, sta a noi imprenditori il compito di fare gli investimenti.
Lei ne sta facendo? Quali i programmi di crescita del 2017?
Non è una domanda da fare a me, ma ai manager che stanno gestendo Eataly. Al momento siamo ancora impegnati ad aprire store in giro per il mondo: abbiamo inaugurato ad agosto il secondo Eataly a New York e a metà novembre il primo a Copenhagen, all’interno di un department store come Illum (ndr: di proprietà di Rinascente), e poi seguiranno Boston, Los Angeles, Mosca e altro ancora. Di certo per i prossimi due-tre anni ci dedicheremo ancora all’estero, poi torneremo all’Italia e ricominceremo ad aprire.
Tra i negozi che ha aperto in questi anni, in Italia e all’estero, ce n’è uno
al quale si sente più legato?
Questo vale per tutti gli Eataly nel mondo, ovviamente! In realtà, sono sempre legato a due negozi: il primo, il Lingotto a Torino, da dove ha avuto inizio questa avventura dieci anni fa, e l’ultima apertura, quella con le novità più recenti; in questo caso, Copenhagen, ma presto ce ne saranno altre. Ma, per me, la soddisfazione principale riguarda i ragazzi che lavorano con noi -una “robetta” da 5-6 mila dipendenti- e i posti di lavoro, che non solo devono essere remunerati il meglio possibile, compatibilmente con le possibilità offerte dal mercato, ma deve anche svolgersi in luoghi caratterizzati da armonia, tranquillità e sicurezza. Eataly segue queste logiche e oggi funziona bene, soprattutto grazie a questa Italia meravigliosa in cui siamo nati, tutto il mondo la vuole e ci invidia, per la biodiversità straordinaria che abbiamo, per questa cucina incredibile che nasce come cucina domestica, per il fatto di poter mischiare ristorazione, didattica e mercato. Che altro ci serve?
L’eCommerce, ad esempio, che avete appena lanciato. Lo considera un vantaggio anche per un retailer brick&mortar?
Certo, anche se va tenuto conto che le vendite online di cibo non arrivano all’1% del mercato mondiale. Perchè l’85% di quello che mangiamo è fresco ed esportarlo online è complesso. Dobbiamo imparare e migliorare, invece, la narrazione digitale, molto importante perchè ci consente di creare maggiore attrattività per i nostri prodotti. Lo storytelling ci serve per convincere il mondo a pagare un po’ di più per il nostro olio extravergine, per le sue migliori qualità. Anche il vino va raccontato arrivando a raddoppiare il prezzo medio, a patto che sia biologico e pulito. Per fare tutto questo bisogna associarsi e mettersi in rete. Tutte opportunità ancora da cogliere con tanto da raccontare.
Ha collaborato Barbara Trigari